Ci fu un Pascoli socialista e un Pascoli nazionalista, un Pascoli patriota e un Pascoli interventista. Non è facile scandagliare il pensiero di uno dei più grandi geni letterari italiani dell’età contemporanea, soprattutto riguardo alle sue posizioni ideologiche e politiche. Certo è che il nascente movimento fascista, una volta passato il poeta a miglior vita – parliamo del 1912 – si appropriò della sua retorica, dei suoi idealismi e del suo approccio storico-filosofico più esacerbato. Ma lo fece probabilmente senza fondamento.
Romagnolo come Mussolini, simpatizzante di una corrente socialista (come Mussolini) che a fine Ottocento null’altro poteva rivestire se non istanze internazionaliste fini a sé stesse o la rivendicazione di una piena uguaglianza sociale e giuridica appena in embrione, il Giovanni Pascoli della maturità è un personaggio forse ancora in parte da scoprire. In realtà, quelle dottrine neo-collettivistiche non apportarono alcun contributo di rilievo al dibattito politico relativo alla prima fase della vita costituzionale postunitaria italiana. Tuttavia il regime ne adottò, facendole sue, alcune delle versioni più estremizzate, quelle cioè legate alla concezione fortemente nazional-patriottica del Pascoli “anziano”, le quali riecheggiavano neanche troppo velatamente di istanze espansionistiche. Si trattava di un vincolo legato al successivo Dannunzio fiumano, ancorché alla pretesa centralità dell’Italia nel Mediterraneo, avanzata dal poeta di San Mauro nei suoi ultimi versi e nei suoi ultimi discorsi. Una dialettica non certo, però, permeata da quell’iconografia assolutista paragonabile all’idea fascista ante litteram che caratterizzò il sorgere dei movimenti precursori del ventennio.
Il monologo pronunciato il 26 novembre 1911 presso il Teatro dei Differenti di Barga, chiamato convenzionalmente “La grande proletaria si è mossa”, concomitante alla guerra italo-turca del 1911-1912, affondava le sue radici nelle liriche (coeve) contenute in Poemi Italici, Poemi del Risorgimento e in particolare nel suo Inno a Roma, laddove alla tradizionale vocazione naturalistica e umanitaria il poeta rivelò una smaccata vena imperialista. L’eredità raccolta dal Carducci e la frequentazione del D’Annunzio, parimenti al periodo di scontri sociali e ideologici che visse l’Europa prebellica, crediamo possano aver trascinato il poeta in un contesto di emulazione che pure, nelle sue forme, sembra ancora tanto individuale quanto armonicamente simbolico. Trattavasi essenzialmente della auspicata “rigenerazione morale” di un popolo che troppo spesso si era trovato a fare i conti – suo malgrado – con il colonialismo straniero, vecchio di secoli e per questo motivo di rivalsa nel rinfocolare i fasti di un passato illustre e centrale nello scacchiere geopolitico planetario. In tal senso, il fascismo ne accolse le venature più forti, mentre la profondità del messaggio pascoliano, dettata essenzialmente dalla necessità di arginare povertà e disuguaglianze sociali civilizzando «una vasta regione bagnata dal mare nostrum [già appartenuto ai romani] per produrre ricchezza e benessere», rappresentava qualcosa di molto più nobile del semplice espansionismo militare. Il nazionalismo di Pascoli, manifestato in ottica interventista contro l’impero ottomano, sembrò dettato quindi dall’intimità di un sentimento legato all’alveo familiare esteso all’amata nazione anziché a propositi bellicisti nel senso stretto del termine. D’altronde, lo stesso Gramsci, in Quaderni dal carcere, lo avrebbe richiamato alla storia come “fautore di una nazione proletaria” intesa più come trasformazione politico-economica della società che come atteggiamento volto a ritenere la guerra un mezzo necessario per fini politici.
Risulta evidente l’incongruenza ideale in rapporto alle esperienze metriche passate, ma è proprio in quanto «ultimo figlio di Virgilio» (citazione del D’Annunzio riferita a Pascoli) che egli sente l’impulso-dovere di strabordare da quel suo mondo umile e contadino contraddistinto dalla strabiliante bellezza della natura, dei suoi suoni e dei suoi odori, per approntare una sorta di compensazione etica alle ingiustizie secolari subite dagli italiani. Ora che dal suo punto di vista sono divenuti un popolo vero e hanno una propria definizione geografica.
© Marco Giuliani, 2022
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Nereida Hipple
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