L’annuncio di Ben Gurion non era solo una notizia: era un atto di giustizia simbolica, un risarcimento morale per un popolo sterminato, e al tempo stesso una sfida politica. Come aveva fatto Israele a violare la sovranità argentina? Perché il processo si sarebbe tenuto a Gerusalemme e non a Norimberga? Quale messaggio inviava al mondo? Questo articolo ricostruisce il contesto, le implicazioni e l’eredità di quel discorso, analizzando come un breve comunicato alla Knesset abbia trasformato un’operazione segreta del Mossad in un capitolo fondamentale della lotta contro l’impunità dei crimini contro l’umanità. Tra diplomazia, etica e memoria collettiva, la voce di Ben Gurion riecheggiò come un monito: “Chiunque alzi la mano contro il popolo ebraico, lo Stato d’Israele saprà trovarlo”.
Lo scopo perseguito pervicacemente da questa organizzazione segreta – composta in prevalenza da ex nazisti – era quello di garantire un’adeguata protezione a chi era in pericolo fornendo falsi documenti d’identità, denaro e, all’occorrenza, assicurando finanche l’espatrio in Paesi piuttosto compiacenti mediante l’ausilio di opportune reti di fuga clandestine allestite prima della fine del conflitto proprio in previsione di una tale eventualità. In tal modo, migliaia di criminali nazisti, senza alcuna esitazione, abbandonarono rapidamente la Germania attraverso tre vie di fuga principali: la prima portava dall’Austria all’Italia e infine alla Spagna, mentre le altre due – sempre attraverso l’Italia – conducevano verso i paesi arabi e il Sud-America.
Durante questo lungo tragitto, spesso e volentieri i transfughi venivano occultati in alcuni istituti religiosi consenzienti, tanto che questo percorso talvolta fu definito per l’appunto la via dei conventi. Fin dai primi di luglio del 1946, in seguito ad un’indagine condotta dalle autorità di pubblica sicurezza italiane si registra quella che nei vari rapporti che furono stilati veniva indicata senza tante perifrasi come «emigrazione illegale dei fascisti» che portò alla scoperta di un gruppo di
Così, nel giro di poco tempo, i reduci delle S.S. allestirono un sofisticato sistema di “corrieri” che avevano il compito delicato di trasportare questi fuggiaschi in luoghi sicuri, seguendo tappe preordinate di settanta chilometri ciascuna, al termine delle quali questi transfughi venivano presi in consegna da altre persone che provvedevano a condurli allo scalo successivo, e così via di seguito fino all’approdo definitivo. L’itinerario seguito correva lungo il confine austro-tedesco, soprattutto in prossimità di Salisburgo, nei dintorni di Innsbruck e nel Tirolo.
In tal modo, attraverso questa cosiddetta via dei conventi i fuggiaschi, avvalendosi anche della complicità di alcuni religiosi, erano in grado di raggiungere i porti di Genova e di Bari, da dove poi, a bordo di qualche piroscafo, potevano approdare piuttosto agevolmente nel continente americano, in Turchia o nei Paesi Mediorientali. Nel caso di Odessa è evidente che la buona fede di molti ecclesiastici e istituti religiosi – al di là di qualche palese connivenza, quale quella del sacerdote filoustascia Krunoslav S. Draganović – una delle figure più controverse della storia recente croata – e dal prelato austriaco mons. Alois Hudal, rettore fin dal 1923 del Pontificio Collegio Teutonico di S. Maria dell’Anima a Roma – fu clamorosamente sorpresa e strumentalizzata dalla ben organizzata rete clandestina nazista. Del resto lo stesso mons. Hudal, molti anni più tardi nel suo Diario romano, ha candidamente riconosciuto di aver aiutato numerosi gerarchi nazisti e fascisti, vantandosi di averne
In questa maniera riuscirono a farla franca un considerevole numero di criminali del calibro di Ludolf Hermann von Alvensleben, responsabile in Polonia della morte di almeno 80.000 persone, che raggiunse l’Argentina nel 1949 a bordo di un piroscafo partito per l’appunto dal porto di Genova, trascorrendo imperturbabile il resto dei suoi giorni a Santa Rosa di Calamuchita, in provincia di Córdoba sotto mentite spoglie con lo pseudonimo di Carlos Lücke; Franz Stangl, il boia di Treblinka, che raggiunse Damasco nel 1950 e l’anno successivo il Brasile dove venne arrestato solo 21 anni dopo; il dottor Josef Mengele, l’angelo della morte di Auschwitz il quale, dopo aver vissuto impunemente in Germania per sei anni, tramite l’Italia e la Spagna giunse in Sudamerica nel 1951; Walter Rauff, inventore dei furgoni-camera a gas che, sempre sotto mentite spoglie, visse indisturbato in Cile fin dal 1954 e dulcis in fundo (ma la lista completa sarebbe troppo lunga) Adolf Eichmann che, sempre dal capoluogo ligure, grazie ai documenti falsi della Croce Rossa intestati a Ricardo Klement, s’imbarcò sul piroscafo della compagnia Costa Giovanna C. per trasferirsi in Argentina.
Difatti, al pari di altri famigerati gerarchi nazisti, nel giugno 1948 anche Eichmann riuscì a procurarsi dei documenti di identità falsi dal vicario generale della Diocesi di Bressanone, Alois Pompanin (Cortina d’Ampezzo, 23 gennaio 1889 – Bressanone, 30 giugno 1966), figura controversa e inquietante, rilasciati dal comune altoatesino che asserivano la sua nascita in quella località intestati a tale Ricardo Klement originario di Termeno. Alois Pompanin, a quanto pare, stampò il passaporto a nome di tal Riccardo Klement. Mentre del viaggio, dei finanziamenti, la copertura delle spese ed il rifugio fino al giorno della partenza, furono di esclusiva pertinenza del vescovo Alois Hudal. Da lì Eichamann raggiunse la capitale da dove poi si diresse a Genova trovando alloggio in un albergo che sorgeva al civico 9 di via Balbi.
Ciò che non è mai stato pienamente conosciuto, e che è rimasto un film velato dalla storia, è il periodo trascorso nella periferia di La Plata, dove lavorava come allevatore di conigli. Era giunto proveniente da Tucumán dopo il crollo della società CAPRI, una società idroelettrica fondata dal nazista Horts Carlos Fuldner, e insieme a sua moglie Vera ed i loro tre figli Klaus, Horst e Dieter avevano preso in affitto un appartamento ammobiliato nel quartiere di Olivos, in via Chacabuco. un altro suo compatriota che spesso sostenne la sua clandestinità e lo aiutò a non cadere in miseria fu il suo compagno Franz Wilhelm Pfeiffer, ex soldato decorato con la Croce di Ferro che allora aveva bisogno di qualcuno di cui fidarsi per gestire la sua nuova impresa di allevamento di conigli d’angora a Joaquín Gorina, una sconosciuta cittadina rurale nei pressi di La Plata. Per quasi due anni, dall’inizio del 1955 alla fine del 1956, Eichmann visse e lavorò sotto mentite spoglie nella fattoria di Joaquín Gorina. Il lavoro richiedeva trascorrere l’intera settimana lontano da casa, ma la paga ne valeva la pena: 4.500 pesos al mese, l’equivalente di 1.000 marchi tedeschi dell’epoca. Del resto era un lavoro che conosceva fin dai tempi in cui si trovava nella brughiera di Lüneburg alla fine del 1948, quando si faceva chiamare Otto Henninger e fingeva di essere un semplice contadino di quelle foreste della Germania settentrionale. Partiva il lunedì di buon mattino dalla stazione di Bartolomé Mitre per Avellaneda e, da lì, camminando inosservato, saliva sul treno che lo avrebbe lasciato prima di mezzogiorno alla stazione ferroviaria di Joaquín Gorina. Era un viaggio di meno di un’ora che ripeteva all’inverso il venerdì pomeriggio per trascorrere il fine settimana con la famiglia.
L’Obersturmbannführer (tenente colonnello) Eichmann era originariamente un membro del SD (Sicherheitsdienst o Servizio di sicurezza), e ha continuato a dirigere la Sezione IV B4 della Gestapo (responsabile per gli affari ebraici) contribuendo a pianificare e attuare lo sterminio degli ebrei. Eichmann fu catturato alla fine di Seconda guerra mondiale dalle forze alleate, ma riuscì a fuggire dal campo di internamento dove fu confinato nel 1946. Il 2 maggio 1960, Eichmann fu arrestato da agenti segreti israeliani a Buenos Aires in Argentina, dove si era nascosto sotto falso nome, e riportato clandestinamente in Israele per essere processato per i suoi crimini.
In cima a uno di questi elenchi di ufficiali affiliati compariva per l’appunto il nome di Otto Von Bolschwing [Doc 7, Vol. 2] il quale
Del resto, i documenti successivi rivelano i tentativi della CIA di individuare fonti rilevanti nei vari documenti rinvenuti in Germania nel Centro documenti di Berlino e presso l’International Tracing Service.
Da tempo viveva tranquillamente in quel luogo non immaginando neanche lontanamente che il Mossad, il servizio segreto israeliano, da un po’ si era messo sulle sue tracce grazie all’indagine condotta da Simon Wiesenthal, un sopravvissuto all’Olocausto e celebre “celebre” dei nazisti sfuggiti alla cattura all’indomani della fine del Secondo conflitto mondiale.
Di conseguenza fu predisposta una sofisticata missione segreta autorizzata direttamente dal primo ministro David Ben-Gurion – studiata fin nei minimi particolari – denominata in codice operazione Garibaldi che scattò l’11 maggio 1960. Dopo varie settimane di appostamenti, gli agenti segreti israeliani sapevano esattamente il percorso che avrebbe fatto Eichmann fino alla sua abitazione al ritorno dalla fabbrica Mercedes-Benz. Poco dopo le 20.05, appena scese dall’autobus nei pressi di calle Garibaldi fu acciuffato e condotto, dapprima in una casa per interrogarlo e controllare le sue cicatrici in modo da verificare la sua identità.
Tra le tante persone che seguirono il processo ad Adolf Eichmann, c’era anche la filosofa di origini ebraiche Hannah Arendt, inviata dal settimanale “The New Yorker”. Nel 1933 era stata costretta ad abbandonare precipitosamente la Germania in seguito alla persecuzione antisemita sferrata dai nazisti e si era stabilita a Parigi finché nel 1951 ottenne la cittadinanza statunitense. Dopo aver assistito assiduamente al dibattimento ed all’escussione del teste, lo descriverà come “un uomo incapace di pensare” e “assolutamente incapace di distinguere il bene dal male” al punto da divenire l’incarnazione della banalità del male, una frase che passerà alla storia suscitando non poche controversie.
Dalla cella di un carcere israeliano, dove attende il processo imputato per aver orchestrato la deportazione di milioni di ebrei, racconta in prima persona come riuscì a svanire nel nulla dopo il 1945, sfuggendo alla giustizia per oltre un decennio. Si tratta di una testimonianza scioccante di prima persona, non filtrata da giornalisti o storici, quindi da prendere cum grano salis, in cui l’ex gerarca nazista descrive la sua fuga dopo il crollo della Germania nazista nel 1945.
Secondo il documento, Eichmann racconta di aver evitato la cattura da parte degli Alleati nascondendosi in anonime fattorie nella Germania tra i rifugiati tedeschi, sfruttando la confusione del dopoguerra e una falsa identità da operaio, utilizzando falsi documenti sotto il nome di “Otto Henninger”. «Vivevo nel costante terrore di essere riconosciuto», scrive, «ma sapevo come sfruttare il caos del dopoguerra». La fuga proseguì verso l’Italia, dove, con l’aiuto di reti clandestine filo-naziste, ottenne un passaporto della Croce Rossa e nel 1950 fuggì in Argentina. Rivelazioni choc sono fornite finanche sul ruolo di ex SS e simpatizzanti che, tra Italia e Austria, lo aiutarono a raggiungere Genova e imbarcarsi per Buenos Aires nel 1950. La narrazione, tuttavia, omette dettagli cruciali. La sua vita in Argentina—dove lavorò in un’officina sotto il nome di Ricardo Klement—fu interrotta solo dal Mossad, che nel 1960 lo rapì per processarlo in Israele. Storici come Deborah Lipstadt sottolineano l’ironia: «Si dipinge come un fuggitivo solitario, ma la sua evasione fu possibile grazie a una rete globale che proteggeva i nazisti». Il racconto, tuttavia, stride con la realtà storica: Eichmann visse sotto mentite spoglie in Sud America fino al 1960, quando fu catturato dal Mossad israeliano in un’operazione segreta. Processato a Gerusalemme per crimini contro l’umanità, fu giustiziato nel 1962.
A questo punto chi scrive desidera mettere in guardia il lettore sulla natura manipolatoria del testo, considerato che, come si vedrà dal testo, Eichmann cercò sempre di minimizzare le sue colpe, dando la vaga impressione di scrivere questo resoconto come un ultimo tentativo di riscrivere la storia, trasformando un criminale in un sopravvissuto. Il documento, inevitabilmente, riapre delle ferite. Alcuni temono che dare spazio alle sue parole possa legittimare il revisionismo. «Non dobbiamo dimenticare che Eichmann era un bugiardo strategico», avverte il procuratore Gideon Hausner, che lo interrogò al processo. «Questo non è un diario, è un’ultima performance».
Per altri, invece, è un’occasione per esplorare le ombre del dopoguerra: «Le sue menzogne rivelano quanto il mondo fosse impreparato a perseguire i colpevoli», spiega la giornalista Gitta Sereny. «Oggi ci ricordano che l’impunità ha radici profonde». Tuttavia, per la ricerca storica, ogni frammento di verità, anche distorto, è un tassello per ricostruire l’eredità più oscura del Novecento. Ma a questo punto lasciamo la parola al protagonista che inizia il suo racconto partendo dal maggio del 1945.
Il mio amato Reich giaceva in rovina. Sconfitto. Mentre ero in piedi sulla riva di un piccolo lago austriaco, mi resi conto che io, l’SS-Obersturmbannführer Adolf Eichmann, ero diventato un animale braccato, non in condizioni migliori della selvaggina nella foresta che vedevo davanti a me.
Mia moglie era in piedi accanto a me. Mentre la salutavo, presi mia moglie tra le braccia. Era giunto il momento di separarci, per sempre. Pensavamo che probabilmente non avrei mai più rivisto la mia famiglia. I miei cari hanno potuto soggiornare al sicuro nell’Häuschensam Aussee a Bad Ischl, nello chalet di mio zio. Ma per me non c’era altra via d’uscita che fuggire.
Pieno di emozione, come solo in queste circostanze è possibile, abbracciai uno dopo l’altro i miei tre figli. Il più giovane aveva solo tre anni. Solo tre anni dopo, lo avrei visto per l’ultima volta. Poi mi è venuto in mente che il dono più prezioso che un padre tedesco può fare a suo figlio è la disciplina. […]
Non mi voltai indietro mentre sparivo in salita verso il luogo in cui avrei trovato il mio nascondiglio e la mia sicurezza. Presi fiato, mi misi la lente sugli occhi e guardai la piccola casa dove avevo detto addio alla mia famiglia. Ma alla fine scomparve dalla mia vista e rimasi solo, completamente solo. Sette anni dopo avrei rivisto i miei parenti in Argentina, ma allora non lo sapevo! […]
Nei giorni successivi ho camminato verso nord. Ogni tanto un veicolo mi dava un passaggio. Trascorrevo le notti all’aperto o nei fienili. Dovevo sempre stare in guardia perché le pattuglie alleate erano ovunque e il rischio di essere catturato era molto alto.
Un giorno, nonostante tutte le precauzioni, fui catturato. Ma essere intrappolati non significava essere bloccati. Nei primi giorni dopo la fine della guerra tutto era nel caos. Ciò valeva sia per gli Alleati che per noi tedeschi. La maggior parte dei soldati tedeschi catturati erano più che felici di essere finalmente in cattività, persino le SS, perché la prigionia significava un letto e del cibo. Ma se non ti piaceva essere imprigionato, non era difficile andarsene. Tutto quello che dovevi fare era scappare. E quello che ho fatto.
Dopo lo spiacevole incidente, sono stato più cauto. Così sono arrivato a Salisburgo senza incontrare ostacoli.
Sono rimasto qui per un po’. Mi sentivo al sicuro nelle stradine della città e mi consolavo con i bei ricordi delle ore felici che avevo trascorso qui durante un soggiorno di dodici anni fa. Fu allora che venni qui in luna di miele con la mia cara giovane moglie, durante le vacanze di Pentecoste.
Il ricordo di mia moglie, che ero stato costretto a lasciare, mi pesava dolorosamente. Mi sedetti in cima alla montagna, vicino al castello di Salisburgo, e osservai pensieroso la città e il fiume Salzach. Non c’è da stupirsi che tu inizi ad esaminare il tuo io interiore…
Qui, nella cella della prigione israeliana, i pensieri mi stanno davanti come se li avessi pensati solo ieri: sono davvero diventato una persona cattiva nei dodici anni trascorsi dalla mia luna di miele a Salisburgo? Mi sono chiesto allora. Era vero che ero diventato una persona senz’anima, un cattivo, un assassino?
Con tali domande esaminai la mia coscienza. Avevo fatto qualcosa durante la guerra che non era mio dovere? Avevo in mente qualcos’altro oltre a restare fedele al mio giuramento ed eseguire i miei ordini?
Non importava quante domande mi ponessi, la mia coscienza mi rispondeva sempre: no, non hai nulla di cui rimproverarti. Avevo ucciso persone indifese o avevo dato l’ordine di ucciderle? No, no, no. Quindi cosa diavolo volevano veramente da me? Ho preso gli ordini e li ho eseguiti diligentemente, tutto qui. Naturalmente, nel frattempo mi è diventato chiaro che l’autore di questi ordini, Adolf Hitler, era uno dei più grandi idioti della storia mondiale. Perché, per l’amor di Dio, ha commesso l’errore di attaccare la Russia?
Mentre stavo lì, accanto al castello di Salisburgo, immerso in quei pensieri, sentivo che la mia anima e la mia coscienza erano pure quanto l’aria di montagna che respiravo. Questa sensazione mi riempì di nuova determinazione e forza d’animo per sfuggire ai miei persecutori. Ma nel frattempo, tutte le strade principali intorno a Salisburgo erano bloccate da posti di controllo americani. Non c’era altra via d’uscita se non comportarsi come una volpe intrappolata nella sua tana.
Un’infermiera della Croce Rossa mi aiutò. Camminava davanti a me sul marciapiede, una giovane ragazza tedesca dall’aspetto grazioso. Non esitai a lungo. “Sono un Obersturmführer delle SS,” dissi, “può aiutarmi a uscire dalla città?”
La ragazza non mi deluse. Senza esitare, fu subito pronta ad aiutarmi a fuggire. Mi prese per il braccio e mi accompagnò come un uomo bisognoso d’aiuto fino a un posto di controllo. Qui pronunciò alcune parole in inglese agli americani di guardia e… passammo senza problemi.
Appena girato l’angolo, la mia “malattia” svanì come per magia. Ripresi a muovermi rapidamente! Ma attenzione: alla frontiera con la Baviera c’erano ancora altri posti di blocco. Da un nascondiglio vicino all’autostrada osservai come tutti venivano controllati prima di passare. All’improvviso, con grande sorpresa, vidi un corteo funebre avvicinarsi lentamente al posto di blocco. Ma qualcosa mi colpì: i “membri in lutto” sembravano troppo disciplinati per semplici civili in lutto. Non potei fare a meno di sorridere quando vidi quasi mezza compagnia di uomini delle SS attraversare il controllo fingendo di essere parenti in lutto, con volti affranti, circondati da alcuni anziani “presi in prestito” per rendere la scena più credibile.
Il posto di controllo americano lasciò passare il corteo senza alcuna domanda. Ma quando tentai di attraversare il confine con la Baviera, fui fermato. Catturato da una pattuglia americana. Indossavo l’uniforme di un soldato della Luftwaffe e mi presentai come Otto Barth di Berlino. Ma uno dei soldati scoprì il segno di sangue sotto l’ascella sinistra, così fui immediatamente identificato come membro delle SS. La grande e splendida “A” tatuata da una graziosa infermiera bionda della Croce Rossa, molto tempo fa, mi aveva tradito. Maledissi Heinrich Himmler, il capo delle SS, perché aveva marchiato i suoi uomini con un segno così facilmente riconoscibile. Ora gli americani mi perquisirono […]. “Non so cosa preferirei fare”, risposi. Cos’altro potrei fare?
[…] Poi i soldati videro il mio orologio. Gli piaceva addirittura di più della penna stilografica. Anche questa volta cambiò proprietario per una seconda dozzina di uova. Lo scambio è stato perfetto, con qualche battuta la merce fu scambiata. […] Più tardi fui condotto dagli ufficiali dell’Abwehr del controspionaggio per un interrogatorio. Si stavano sciogliendo le unità di trasporto tedesche e interrogavano i prigionieri uno dopo l’altro. Il comandante dell’unità era accanto al tenente americano e cercava di perorare la causa di ogni singolo suo uomo. Ricordo ancora il senso di disprezzo che provai quando lo sentii presentare ognuno di loro come oppositore del nazismo. Non potevo più sostenere la mia storia di essere solo un comune aviatore, dato che il mio gruppo sanguigno era stato scoperto. Quando venni interrogato, diedi quindi le mie generalità come “SS-Untersturmführer Otto Eckmann”. Nato? chiese il tenente. “Ovviamente, si” risposi. Per fortuna mi accorsi che l’uomo non aveva molto senso dell’umorismo, così aggiunsi rapidamente: “Il 19 marzo 1905 a Breslavia.” Dopodiché mi fece sedere sull’erba e iniziai rapidamente a inventare un curriculum che sembrasse credibile. Rimasi in quel piccolo campo provvisorio per circa una settimana. Fu un periodo tormentato. Non tanto per il trattamento ricevuto dagli americani — che non si comportarono male — ma per i pensieri che non riuscivo a scacciare. Non era tanto la perdita della libertà personale a farmi soffrire, quanto piuttosto la consapevolezza di cosa significava veramente la sconfitta della mia amata patria. Avrebbero potuto picchiarmi o torturarmi, non mi avrebbe fatto nulla, perché il dolore per la rovina del Reich mi aveva reso immune a qualsiasi sofferenza personale. Un solo pensiero mi ossessionava: “La Germania è distrutta, la Germania è distrutta”. […] E così pregai: “Dio, non abbandonare il Reich. Lasciami morire, ma aiuta il Reich”. […]
Nel campo di prigionia dovevamo lavorare, ma non si trattava di lavoro pesante né forzato. […] Purtroppo le cose non andarono così, perché fui trasferito in un campo più grande vicino a Weiden, dove il lavoro era molto più duro, ovvero selezionare e accatastare munizioni pesanti in un deposito della Luftwaffe.
Il mio compito era quello di dividere tre compagnie di SS in gruppi di lavoro.
Sono rimasto in questo campo dal 5 agosto 1945 al 5 gennaio 1946. Nel frattempo, il cibo era migliorato e c’erano persino razioni di tabacco e la paga militare, come previsto dalla Convenzione di Ginevra. Devo anche ammettere che siamo stati trattati in modo molto corretto, soprattutto dagli afroamericani. […]
Sebbene mi sentissi a mio agio nel campo e il trattamento fosse buono, mi resi conto che non potevo restare lì ancora a lungo. Finora ero riuscito a far credere agli altri la storia della mia vita apparentemente impeccabile, ma ero consapevole che il mio nuovo curriculum non avrebbe resistito a un esame approfondito. Certamente avevo preso precauzioni, mettendo i vari luoghi in cui le indagini erano possibili molto lontani l’uno dall’altro. Ci sarebbe voluto del tempo prima che il mio curriculum venisse scoperto. Ma prima o poi il destino mi avrebbe raggiunto. E la notizia che presto ci sarebbe stata una nuova, più approfondita indagine mi fece temere il peggio, soprattutto perché ogni individuo doveva essere interrogato da una commissione di ufficiali di prim’ordine. Ciò mi spinse a valutare la situazione e a concludere che era ormai giunto il momento per l’SS-Obersturmbannführer Adolf Eichmann di essere rilasciato dalla prigionia americana.
Ma come? Questo devo descriverlo nei dettagli. Ancora una volta, l’aiuto venne da un’infermiera. Feci la sua conoscenza una domenica pomeriggio, quando venne al campo con altri abitanti del villaggio per chiacchierare con i prigionieri. Naturalmente eravamo separati da un robusto filo spinato dai visitatori. Ma che ci crediate o no, ciò non ha potuto impedire l’emergere di alcune storie d’amore!
La mia sorella era una ragazza splendida, bionda, con un cuore d’oro […]. Per prima cosa mi portò un mazzo di fiori. Chi avrebbe qualcosa da obiettare contro i fiori. La volta successiva erano di nuovo fiori, questa volta con un piccolo sacchetto di colorante, così potevo tingere i miei pantaloni per farli sembrare quelli di un cacciatore di montagna. Nello stesso momento sono riuscito a procurarmi un paio di calze di lana lunghe dall’accampamento. Se avessi indossato questi insieme ai pantaloni tinti arrotolati, allora sembravo come se indossassi i pantaloni alla zuava di un cacciatore.
Inoltre, scambiai la mia giacca dell’uniforme con una giacca tirolese. La mia bella sorella nazista, si occupò di me. Mi procurai anche un set di bottoni in corno di cervo e un po’ di stoffa verde per adornare i polsini e il colletto della mia giacca. Alla fine, arrivò persino una cravatta e un cappello da cacciatore con un pennacchio di camoscio. Tutto doveva essere in perfetto ordine.
Passammo ore al filo spinato immersi in una conversazione profonda. Le pattuglie americane ci avranno sicuramente scambiati per una coppia innamorata, vedendoci lì, persi negli sguardi l’uno dell’altro. Ma l’apparenza ingannava. Non erano parole d’amore quelle tra di noi. Quel patriottico angelo tedesco mi fornì una descrizione dettagliata del territorio e mi indicò le distanze e le difficoltà che avrei dovuto affrontare durante la fuga.
Ormai ero pronto a fuggire. Ma nel frattempo era arrivato dicembre e decisi di restare almeno per il Natale con i miei compagni dietro il filo spinato. […]
La notte della Vigilia di Natale del 1945, le compagnie SS si disposero in fila attorno all’albero e ascoltarono il discorso del comandante del campo, che parlava di amore, speranza e lealtà. Poi cantammo tutti il canto delle SS «Wenn alle untreu werden…». Nessuno di noi aveva alcun rimorso di coscienza: nessuno associava quel canto al regime passato o alle sue azioni. Il nostro canto era dedicato al Reich, per il quale eravamo ancora disposti a marciare e combattere.
Poco dopo Natale, chiesi di avere un colloquio con gli ufficiali per chiedere il permesso di fuggire, poiché mi sembrava impensabile abbandonare i principi di disciplina persino in un campo di prigionia.
È così che funzionava: ci si abitua all’obbedienza e alla sottomissione volontaria. Noi tedeschi avevamo coltivato così tanto la disciplina e l’obbedienza che, senza ordini, ci sentivamo smarriti e indifesi.
L’obbedienza agli ordini mi era entrata nel sangue; avevo imparato che la disobbedienza era la radice di ogni distruzione.
Così chiesi il permesso di fuggire… e mi fu concesso. Nonostante le restrizioni che la mia attuale detenzione mi impone, ricordo ancora esattamente la data in cui sono fuggito dal campo di prigionia: era la notte del 5 gennaio 1946. Mi rasai la barba, indossai il cappello da contadino di montagna, mi misi il berretto da cacciatore in testa e cercai di farmi strada attraverso il filo spinato verso la libertà.
All’inizio rimasi lì, dall’altra parte della rete metallica, indifeso come un bambino. Ero completamente solo, nessuno era lì a darmi ordini. Ma non rimasi lì a lungo, perché sapevo che dovevo muovermi. E il più velocemente possibile…
Furono quattro le donne a cui devo la mia fuga…
La chiamavamo la “U-Boot-Route”. Si trattava di un percorso segreto per far uscire uomini dall’Europa, uomini ricercati. Ex membri delle SS… sostenitori di Hitler. Uomini come me.
Questa organizzazione era — come tutto ciò che era organizzato dalle SS —eccellente. Funzionava perfettamente. Ancora oggi la “U-Boot-Route” viene utilizzata da uomini il cui “passato” vieta loro di viaggiare da un paese all’altro usando i loro veri nomi.
Nel 1950 mi convinsi che era giunto il momento di lasciare la mia patria e di raggiungere la salvezza in Sud America attraverso la “U-Boot-Route”.
Per quattro anni ho condotto una vita semplice e tranquilla nella Landa di Luneburgo, nella Germania settentrionale. Dopo essere fuggito dalla prigionia americana, sono arrivato qui dalla Baviera. […]
Devo dichiarare esplicitamente che non ho vissuto lì come Adolf Eichmann, ex Obersturmbannführer (tenente colonnello) delle SS? Mi chiamavo Otto Henninger ed ero un semplice falegname che lavorava con sega e ascia. […]
Ma, nonostante ciò, ero una talpa che viveva sotto la superficie e fingeva di essere qualcuno che in realtà non era. Se non volevo destare sospetti tra la gente semplice che mi circondava, non dovevo leggere nulla di più impegnativo di una storia per bambini. Arrivai quindi gradualmente alla convinzione che la mia inclinazione fosse un po’ più nobile. Decisi di dedicarmi al commercio […] come allevatore di polli.
L’idea mi è venuta leggendo un vecchio opuscolo risalente al Terzo Reich. […]
La mia inquilina, la signora Lindhorst, mi concesse in affitto un piccolo pezzo di terra e dall’ufficio forestale dove lavoravo acquistai legname a basso costo per costruire dei pollai.
Seguendo scrupolosamente le istruzioni contenute in questo splendido libro nazista, sono diventato un allevatore di polli di successo. Questo è il segreto del successo, come si vede. Bisogna solo seguire le istruzioni il più fedelmente possibile… […]
All’inizio ero un po’ nervoso, ma nessuno diffidava del piccolo e tranquillo allevatore di polli. A poco a poco ho avuto la sensazione di essere al sicuro. La sensazione di essere braccato si affievoliva sempre di più. La vita in questa splendida brughiera continuava il suo corso pacifico. La domenica andavo in bicicletta alla locanda del villaggio.
Mi trovavo nei pressi di Celle e mi sono goduto il tempo libero con la mia bevanda speciale: un buon cognac con un tuorlo d’uovo e un cucchiaio di zucchero. Questo mi ha dato forza fisica e mentale.
A volte mi veniva da sorridere quando l’oste mi raccontava cosa aveva scritto il giornale locale su Eichmann. “Probabilmente sono tutte bugie e invenzioni”, diceva sempre, e questo mi rendeva molto felice e sereno.
Ma ero ancora completamente solo. C’era solo una persona che potevo considerare un amico. Era una vedova di guerra, fuggita qui dalla Slesia con la sua graziosa figlia quattordicenne. Vivevano in condizioni pessime, in una sola stanza.
Ho trascorso molte ore piacevoli con questa donna e l’ho aiutata dandole della legna, che poteva scambiare con del cibo al mercato nero. Lei piangeva di gioia e io ero felicissimo di aiutarla perché dimostrava che ero una persona generosa.
Penso che potrei ancora vivere lì come Ot o Henninger, nonostante le forze di occupazione. Ma per me era chiaro che non avrei mai più rivisto mia moglie e i miei cari figli, rimasti in Austria. Non potevo nemmeno mandare loro un messaggio che ero vivo e libero.
Un giorno ho letto che l’ex Gauleiter nazista della Carinzia viveva in Argentina1. Mi venne in mente che sarebbe stato facile trasferirmi lì. Inoltre, iniziai a sospettare di un uomo che comprava da me più uova di quante ne potesse consumare. Mi stava spiando?
Sì, era giunto il momento per Adolf Eichmann di mettersi al lavoro.
Ma ancora una volta mi colse quella sensazione di impotenza che provavo quando mi trovavo senza ordini. Ho sempre avuto difficoltà a prendere decisioni importanti senza istruzioni o comandi precisi.
Mi diedi quindi l’ordine da solo. Il primo ordine diceva: “Sii cauto, non fidarti di nessuno!” Sapevo infatti che era pieno di traditori e delatori. […]
Tuttavia, dovevo correre qualche rischio e così confessai a uno dei miei conoscenti più stretti sulla brughiera la mia intenzione di andare oltreoceano e gli chiesi se conosceva qualcuno che sapesse qualcosa di ciò che riguardava questo viaggio.
Fu così che nel 1950 entrai in contatto con un uomo di Amburgo, un ex SS, che viaggiava spesso tra Germania e Italia. Gli diedi 300 marchi dei miei risparmi (2.500 marchi tedeschi, che avevo guadagnato con il commercio delle uova), e in cambio ricevetti da lui le informazioni più precise sulla “U-Boot-Route” per il Sud America. Ho imparato ogni dettaglio, ogni tappa, ogni punto di contatto. Questo era ciò di cui avevo bisogno, i miei ordini
Con un addio, uno sguardo malinconico agli stretti sentieri, alla locanda e ai boschi dove avevo trascorso felicemente quasi quattro anni, ebbe inizio il mio viaggio.
Con il nome ancora di Otto Henninger, ora dovevo interpretare il ruolo di un viaggiatore. Ciò significava indossare cravatta e colletto, cosa che mi sembrava piuttosto insolita dopo tanti anni trascorsi come contadino e boscaiolo.
Nella città bavarese, prima tappa del mio viaggio, mi sentivo a disagio tra la gente, e sudavo nervosamente mentre compilavo il modulo di registrazione in hotel.
Fu lì che ebbi il mio primo contrattempo. Nell’hotel avrei dovuto incontrare una persona del posto che mi avrebbe informato su chi avrebbe dovuto condurmi oltre la frontiera attraverso le montagne verso Kufstein in Austria. Ma con mia grande delusione scoprii che l’uomo che doveva aiutarmi si era appena rotto una gamba ed era ricoverato in ospedale. Tuttavia, riuscii a visitarlo e lui mi indirizzò verso una piccola locanda vicino al confine, dove i suoi amici si sarebbero presi cura di me.
Dovetti aspettare lì per quasi una settimana, e la situazione mi sembrava sospetta, dato che era inizio maggio e non c’erano molti turisti tra cui confondersi per non farmi notare. Inoltre, notai che la zona era piena di poliziotti di frontiera con le loro uniformi verdi. La mia tensione aumentò quando, la seconda sera del mio soggiorno, un gruppo di ufficiali della polizia di frontiera si radunò proprio nella locanda.
Ma ancora una volta fu una giovane donna a salvarmi da questa situazione difficile. Era una graziosa villeggiante di Monaco di Baviera, oltre a me, l’unica ospite della locanda, e per questo avevo cercato di fare la sua conoscenza.
Seduto al tavolo in un angolo della sala, vestito con abiti da montagna, un cappello tirolese e la barba di camoscio, iniziai a conversare con questa signora. Ben presto tutti i giovani poliziotti ebbero occhi solo per noi. Con la scusa di avere mal di stomaco, mi congedai e andai a dormire. Non avrei potuto rendere più felice il poliziotto!
Riuscii a riposare tranquillamente, consapevole di essere protetto proprio dai poliziotti che avrebbero potuto catturarmi.
Alla fine della settimana tutto era finalmente pronto per la fuga. Si trovò un cacciatore disposto, per 50 marchi, a portarmi oltre le montagne e il confine.
Trascorremmo la notte in una baita in alta montagna. Fu una serata indimenticabile: stavo lasciando la Germania e mi sentivo come un bambino che dice addio alla madre.
Il cacciatore era molto duro d’orecchi, ma aveva un’ottima vista. Mentre eravamo seduti a fare colazione, all’improvviso esclamò: “Attenzione, polizia!”
Aveva ragione. Un agente della polizia di frontiera si stava avvicinando a noi, avendo notato il fumo proveniente dalla baita. “Vuole solo una tazza di caffè”, disse il cacciatore. “Sdraiati sul fondo di quell’armadio finché non se ne va”.
Mentre giacevo lì, al buio, nell’armadio, ad ascoltare la mia guida che parlava con l’ufficiale, accadde una tragedia: sentii un irrefrenabile bisogno di tossire. Nessuno può capire cosa dovetti sopportare per trattenere il colpo di tosse. Continuamente mi pizzicavo per distrarmi. Anche alcune settimane dopo, il mio braccio era ancora pieno di lividi. La cosa importante, in realtà, era che riuscii a trattenere la tosse
Alla fine l’ufficiale se ne andò, e la mia guida ora sapeva tutto ciò che era necessario per evitare altre pattuglie. Così scendemmo senza difficoltà nella valle, verso l’Austria, dove ci concedemmo un bicchierino di grappa per festeggiare il nostro successo. Da Kufstein ho preso un taxi per Innsbruck, dove ho potuto incontrare due uomini di mia fiducia. Il primo era un’officina di riparazioni. Ma il proprietario, un ex SS-Untersturmführer, mi accolse molto sgarbatamente. “Mi mandano ogni dannato vagabondo”, sbottò. “Stai attento. Vedi quel tenente francese laggiù? Se non te ne vai subito, ti farò arrestare”.
La mia risposta fu altrettanto chiara! “Mi scusi per il disturbo, ma spero che il diavolo la porti via”.
Il secondo luogo aveva due ingressi. Mi era stato fortemente consigliato di usare solo quello a sinistra. Tuttavia, a causa dell’ira provocata dall’incontro con il mio ex compagno, feci confusione ed entrai dalla porta a destra.
Dannazione! Mi ritrovai nel quartier generale della polizia di sicurezza francese del Tirolo. Mi sono accorto del mio errore troppo tardi; Non potevo tornare indietro senza destare sospetti. Che stupido ero stato! Ma trovai comunque una soluzione. “La signora Huber abita qui?” chiesi a un ufficiale, fingendomi un po’ impacciato. “Vengo da Linz e cerco lavoro. Spero che la signora Huber, che è parente di mio zio, possa darmi un alloggio”.
Sebbene questa scusa fosse improvvisata, funzionò.
Sebbene questa scusa fosse improvvisata, funzionò. L’agente sorrise e disse: “Lei è nel posto sbagliato. La signora Huber vive qui accanto”.
Mi sentii sollevato. Ancora una volta, il buon Dio mi aveva aiutato nella mia ingenuità.
La cara vecchia signora Huber mi diede un altro bicchiere di grappa e mi indirizzò a un’altra locanda vicino al Brennero. Il percorso segreto funzionava perfettamente.
Mentre aspettavo lì, fui preso da un nuovo spavento. Diversi camion arrivarono di corsa nel villaggio e ben presto il luogo fu invaso da soldati francesi intenti a condurre un rastrellamento. Ma la mia locandiera, che faceva parte dell’organizzazione, era preparata. “Rapidamente su al piano di sopra. Presto, giù per terra”, disse.
Per più di un’ora rimasi nascosto tra ragnatele e macerie. Dopo la loro ricerca infruttuosa, i francesi si fermarono alla locanda per bere un quarto di vino. […]
Superato questo momento di paura, ripresi il mio viaggio. Ma prima dovetti prendere una difficile decisione. Non ero lontano dalla mia famiglia ad Aussee. Dovevo rischiare una visita?
Era una forte tentazione. Ma ho resistito e sono andato avanti.
Il locandiere mi guidò attraverso le ripide montagne fino all’Italia. Durante l’arrampicata, non potevo portare con me la valigia. Ma il mio ospite, essendo un eccellente organizzatore, aveva già trovato una soluzione. Affidò la mia valigia a un prete cattolico molto disponibile e generoso, che la trasportò in bicicletta oltre il confine.
Nessuna delle guardie di frontiera prestò attenzione all’uomo con la lunga tunica nera. Un tempo aiutavano gli ebrei in fuga, ora aiutavano… Eichmann!
Pieno di gratitudine, presi il mio bagaglio da questo eccellente prete in bicicletta circa un chilometro e mezzo oltre il confine italiano e, per celebrare il successo della mia fuga, mi concessi un sorso del tradizionale alcol. Stavolta era un vino rosso del Sud Tirolo!
Il prete mi indirizzò a un tassista che mi portò prima al suo appartamento. Qui lasciai il mio abito tirolese e mi cambiai con abiti meno appariscenti. Poi ci dirigemmo verso Merano.
Questo era, secondo il mio nuovo passato, il mio luogo di nascita, e qui ricevetti il mio “libro de embargo”, il permesso di sbarco per l’Argentina.
L’ho ricevuto da un uomo che, con mia grande stupore, non mi chiese neanche una lira. Fino a quel momento, avevo sempre dovuto pagare cifre ingenti per i servizi “agenti U-Boot”che aiutavano i fuggitivi.
Con in tasca il permesso d’ingresso rilasciato a nome di Ricardo Klement, sono arrivato a Genova. Grazie a questo documento ho ricevuto un passaporto per rifugiati dall’ufficio della Croce Rossa Internazionale.
Un passaporto! Mio Dio. iniziai di nuovo a sentirmi un essere umano a tutti gli effetti!
Ora dovevo aspettare sedici giorni prima di poter partire per il Nuovo Mondo. Avevo tempo per abituarmi al mio nuovo nome e praticare la mia firma. Mi divertiva, il nome aveva una certa solennità.
Preparai le risposte sulle mie nuove generalità e lessi molto su Merano. Fu utile, perché dovetti superare un’accurata verifica da parte delle autorità. Esaminarono il mio stato di salute e i documenti. Tutto era in perfetto ordine.
Un agente inaspettatamente, mi tolse gli occhiali per controllare se le lenti fossero vere o solo una parte del travestimento. Sembrava soddisfatto.
Durante la mia permanenza a Genova, un vecchio monaco si prese cura di me e mi teneva lontano da sguardi indiscreti. Diventammo buoni amici, giocammo tante partite a scacchi e bevemmo molti bicchieri di Chianti.
È stato davvero curioso che durante la mia fuga mi abbiano aiutato ripetutamente preti cattolici. Aiutavano senza fare domande. Ai loro occhi ero solo uno dei tanti che avevano bisogno di aiuto.
Il giorno prima della mia partenza, il monaco Padre Franciscus mi chiese con insistenza di partecipare alla messa perché voleva benedirmi. “Non può far male”, disse. Gli posi una mano sulla spalla e lo chiamai “mio buon vecchio fariseo”. Sebbene i miei genitori fossero ferventi protestanti e io stesso avessi abbandonato la chiesa nel 1937, andai a messa e accolsi con commozione la benedizione del vecchio monaco.
Il giorno seguente lasciai l’Europa, dove avevo trascorso tutti i 44 anni della mia vita.
Mentre la nave Giovanna C lasciava il porto di Genova, mi sentii come una preda braccata che finalmente era riuscita a liberarsi dei suoi inseguitori. Un’ondata di senso di libertà mi travolse. Ma dentro di me sentivo anche tristezza. Nella tasca avevo una manciata di terra che avevo raccolto nella mia patria tedesca mentre mi nascondevo tra le montagne. Doveva ricordarmi il dolore.
Eichmann trova sicurezza nella “Terra Promessa” dei nazisti
No, quando nel 1950 partii per il Sud America avvolto in un’ondata di libertà e soddisfazione, ero felice che i sentimenti amari e le passioni della guerra fossero finalmente sepolti e dimenticati.
Tuttavia, mentre la Giovanna C passava Gibilterra, su cui sventolava la bandiera britannica, non potei fare a meno di pensare a ciò che alcuni di questi inglesi avevano fatto durante la guerra. […]
Naturalmente so che i bombardieri tedeschi distrussero anche città inglesi, ma dubito che donne e bambini inglesi indifesi siano mai stati presi di mira. Devo però ammettere che in alcune occasioni i miei compatrioti nel continente europeo hanno sparato anche ad altri rifugiati. Mi vergogno di questi incidenti. Riflettendo su questo, trovo incomprensibile come soldati armati – indipendentemente dalla parte per cui combattevano – potessero puntare le loro armi contro donne, bambini e anziani. È una crudeltà che non riesco a capire.
La nave procedeva con passo sicuro nel mare e mi conduceva verso una nuova vita. […] Vista la situazione della mia fuga, non potevo correre rischi […]. Dovevo eseguire gli ordini ricevuti da coloro che avevano organizzato questa “U-Boot-Route” per ex membri delle SS e nazionalsocialisti perseguitati. Posso confermare che questa via è ancora utilizzata. Ogni errore che ho commesso potrebbe aver compromesso le possibilità per altri.
Non passò molto tempo prima che la nostra nave attraversasse Montevideo, la capitale dell’Uruguay. E poi ci siamo ritrovati a La Plata e abbiamo gettato le ancore. Eravamo in Argentina. Dall’ombra era emerso un uomo che aveva lasciato dietro di sé quattro fantasmi. Eichmann l’avevo lasciato in Austria; Barth lo avevo perso in Baviera; Eckmann era rimasto nel Tirolo; Henninger era rimasto in Italia. Come quinta persona, come Ricardo Klement, ho fatto il mio ingresso nel Nuovo Mondo.
Ero in piedi da solo sulla prua della nave ancorata e guardavo nell’oscurità. Ricordo di aver pensato in quel momento che questo momento avrebbe potuto essere descritto come l’ultimo incontro di queste cinque personalità.
“Ascolta,” disse Barth a Eckmann – o almeno così immaginai – “questo massacro, questa carneficina era davvero necessaria?”
“E cosa si è guadagnato, in fondo?” disse un altro.
“E tu, Klement, cosa ti aspetti di ottenere andando in Argentina?”
Che domande! In quel momento cruciale della mia vita stavo davvero cercando di scrutare la mia anima.
Direi che il nazionalismo è il principale responsabile dei problemi del mondo. Qualcuno parlava, e le scintille di quel discorso alimentavano il fuoco che ha incendiato l’Europa. […]
Queste cinque figure ebbero la loro parte in tutto quell’orrore, così come i russi e, in misura leggermente minore, i francesi, gli inglesi, gli americani e altri.
Ma come gli altri, anch’io sono stato solo un esecutore degli ordini, obbligato a obbedire agli ordini. […]Insomma: Il viaggio era finito. Mi trovavo sul suolo argentino. Il mio cuore era pieno di gioia. Le paure di poter essere denunciato svanirono. Ero lì e al sicuro! […]
E durante quegli anni, non mi ha mai lasciato la paura che qualcuno potesse trovarsi dietro di me e all’improvviso gridare: “Eichmann!”
Ora tutto ciò poteva essere messo da parte. Tuttavia, ci vollero anni prima che perdessi completamente questi riflessi automatici e tornassi gradualmente a essere una persona normale. […]
Sapevo che in questa “terra promessa” del Sud America alcuni buoni amici mi stavano aspettando per aiutarmi. Amici ai quali potevo dire apertamente, liberamente e con orgoglio che ero Adolf Eichmann, ex SS-Obersturmbannführer.
Come molti altri ex camerati delle SS e del NSDAP, avevo finalmente trovato pace e sicurezza nel Nuovo Mondo, e presto fui pieno di rispetto e ammirazione. Ovviamente, ero sorpreso dalla perfezione con cui avevano organizzato la mia nuova esistenza.
Due problemi mi preoccupavano particolarmente. Il primo: avevo bisogno di documenti personali impeccabili; il secondo: avevo bisogno di un lavoro. Perché la libertà senza soldi vale ben poco, e quindi avevo bisogno di lavorare. Avevo solo 485 pesos in tasca quando arrivai a Buenos Aires.
Ho letto molte storie in cui si afferma che io, Adolf Eichmann, fossi un uomo ricco. Si sostiene che durante la guerra avessi sottratto denaro agli ebrei e nascosto un immenso tesoro.
Per Dio, sono solo menzogne, menzogne, menzogne!
Quattrocentottantacinque pesos erano tutto ciò che possedevo. E solo la metà erano i miei, perché avevo promesso a un’altra persona, un membro della stessa organizzazione a cui appartenevo, che avevo incontrato sulla nave, che avrei diviso il denaro con lui. Il cameratismo è una cosa meravigliosa. E ci siamo resi conto che c’erano altri camerati lì che avevano bisogno di aiuto.
Fin dall’inizio, la mia vita in Argentina non fu male. Molte famiglie rispettabili mi invitarono a cena. Ben presto non mi sentii più un estraneo.
Un giorno, un ex Untersturmführer delle Waffen-SS venne da me e mi informò che “l’organizzazione” aveva trovato un impiego per me. Una nuova compagnia, gestita sia da argentini che da tedeschi, stava per costruire una centrale idroelettrica per la fornitura di energia nella città di Tucumán, ai piedi delle Ande, nel nord del paese. Mi fu offerto un ruolo nella direzione, come responsabile dell’organizzazione.
Tuttavia, ci vollero otto settimane prima che il progetto iniziasse, quindi nel frattempo dovevo trovare un modo per mantenermi. Lessi su un giornale che stavano cercando un meccanico, ho fatto domanda. Accettai il lavoro come meccanico senza problemi e mi adattai presto alla nuova vita, perché mi sono reso conto che non ero affatto goffo, anche se non avevo mai fatto un lavoro del genere in vita mia.
L’ingegnere capo di questa azienda era l’ex consigliere scientifico del generale delle SS Ramler2, che era stato a capo delle armi missilistiche. Ogni volta che veniva in fabbrica, mi parlava e cercava di convincermi a restare. Tuttavia, avevo preparato tutto ed ero pronto ad assumere l’incarico più importante a Tucumán.
Nel frattempo, i miei amici erano riusciti a procurarmi documenti personali argentini completi e autentici. Mi chiamavo ancora Ricardo Klement, come era riportato sul mio passaporto da rifugiato. Dichiaravo la mia professione come meccanico. Senza esitazione mi dichiaravo cattolico. In realtà non appartenevo a nessuna chiesa, ma l’aiuto che avevo ricevuto dai sacerdoti cattolici mi aveva profondamente commosso, e così decisi di onorare la chiesa diventando suo membro… Nell’autunno del 1950 sentii di essere di nuovo libero, e iniziai a lavorare all’ombra delle Ande. Mi fu offerta la posizione di esperto di gestione. Non mi importava di lavorare con le mani come avevo fatto prima, ma le mie vere competenze risiedevano nell’ambito dell’amministrazione e dell’organizzazione. Se i miei superiori mi affidano un compito, potevano essere certi che lo avrei portato a termine con la massima perfezione. Molte personalità possono confermarlo; tuttavia, non tutte sono ancora vive. Tucumán fu un periodo felice. Ebbi anche l’opportunità di dedicarmi a uno dei miei più grandi piaceri: l’equitazione. […]
Erano trascorsi sei anni da quando mi ero separato da mia moglie e dai miei tre figli, che avevo lasciato nella cittadina lacustre sulle Alpi austriache. Non avevo dimenticato che sarebbero stati attentamente sorvegliati per eventuali indizi sulla mia posizione. Ma ora forse valeva la pena rischiare e mettermi in contatto con loro. Tramite un sistema di scambio di lettere organizzato dalla “Organizzazione”, potevo comunicare con mia moglie. Nel 1952, i principali esponenti nazisti di Buenos Aires si assicurarono che mia moglie ricevesse denaro da certe fonti in Germania per il “viaggio in Sud America”. Senza dare nell’occhio, lasciò l’Austria con i nostri tre figli e viaggiò in treno attraverso il Brennero fino a Genova. Nel luglio 1952 arrivarono a Buenos Aires. […]
Tuttavia, dovetti continuare a vivere sotto mentite spoglie e non potevo essere il padre dei miei figli. Per Klaus, Horst e Dieter ero “zio Ricardo”. Mia moglie riprese il suo cognome da nubile “Liebl”, i miei figli mantennero il loro vero cognome “Eichmann” e io, ovviamente, rimasi “Ricardo Klement”.
Ma a prescindere dai nomi, finalmente vivevamo di nuovo felici insieme in Argentina. Insegnai ai ragazzi a cavalcare e, qualche volta, andavamo tutti insieme nella splendida Buenos Aires, dove ebbi modo di conoscere il presidente Perón, che aveva sempre un occhio di riguardo per noi tedeschi. La nostra felicità fu coronata dalla nascita del nostro quarto figlio. Per me significava più di un semplice orgoglio paterno: era un simbolo. Nonostante tutta la gioia, dovevo comunque rimanere cauto. Non potevo ufficialmente dichiarare mio figlio come mio figlio, poiché ufficialmente non ero sposato con mia moglie. Dovevo quindi registrare il bambino come “illegittimo”. Fu registrato come “Ricardo Liebl”, prendendo il cognome di mia moglie.
Mi congratulo con i miei rapitori. Da esperto in materia, devo ammettere che hanno portato a termine il loro compito elegantemente.
È colpa mia se gli ebrei sono riusciti a catturarmi. Ho vissuto libero e felice in Argentina per undici anni, sentendomi così sicuro da ignorare due chiari avvertimenti. Ammetto che il giorno della catastrofe, l’11 maggio 1960, non ero preparato, quando sentii una pistola contro le mie costole e una voce ebrea disse: “Signor Eichmann, non crei problemi, altrimenti verrà ucciso sul posto”. Questo significava la fine della mia libertà. Ma se non fossi stato così stupido da ignorare questi avvertimenti, probabilmente non mi troverei in questa dannata cella. Il primo evento sospetto fu la visita di un gruppo di uomini sconosciuti nel mio piccolo villaggio di San Fernando, nella periferia di Buenos Aires.
“Sembravano americani”, disse mia nuora quella sera. Spiegò che volevano acquistare un terreno per costruire una fabbrica di macchine da cucire. Il mio istinto affinato dal servizio segreto mi disse immediatamente che qualcosa non andava in questa storia. Sarebbe stato assurdo per veri imprenditori investire in questa zona povera, priva di acqua ed elettricità, per costruire una fabbrica. Ero di nuovo all’erta come un tempo. Avevo vissuto per anni in Argentina senza nascondermi, a differenza di molti ex membri delle SS e della Gestapo. Ora avevo la sensazione di essere in trappola e di dover fuggire ancora una volta. Ma dove? C’erano molte possibilità. Avrei potuto rifugiarmi nelle montagne del nord, dove avevo amici tra gli indigeni che mi conoscevano come Ricardo Klement. Oppure trasferirmi in Cile o addirittura oltre, in Asia. Ma tutto questo avrebbe significato ricominciare la vita da fuggitivo. E agli occhi della mia famiglia sarei apparso ancora una volta come il vile codardo che per quindici anni era stato descritto in tutto il mondo. Decisi di non fare nulla e cercai di calmare i miei sospetti, pensando che quella visita insolita potesse essere solo un normale controllo della polizia argentina. Ma presto un secondo evento risvegliò il mio sospetto: una macchina nera parcheggiata a circa 200 metri da casa mia. La notai diverse mattine mentre andavo alla fermata dell’autobus per recarmi al lavoro nella fabbrica Mercedes di Buenos Aires. Ogni volta il motore della macchina era acceso. Mi sembrava molto strano. Ogni volta che percorrevo metà del tragitto verso la fermata, qualcuno emetteva un suono simile al colpo di due pezzi di metallo battuti insieme. Chiaramente si trattava di un segnale.
Questo mi ricordò un incidente accaduto qualche tempo prima. Un giorno, mentre ero in Argentina, stavo passeggiando per una strada poco frequentata quando notai un uomo che sembrava osservarmi con troppa attenzione. Mi avvicinai a lui e gli chiesi se avesse bisogno di qualcosa, ma il suo comportamento era evasivo e sembrava nervoso. Quell’incontro mi lasciò inquieto. Non sapevo se fosse solo una coincidenza o qualcosa di più significativo, ma ora, vedendo quella macchina misteriosa e sentendo quel suono metallico ripetuto, tutto cominciò a sembrare parte di uno schema più grande. Era possibile che qualcuno mi stesse cercando?
Passarono i giorni e continuai a notare il comportamento sospetto attorno a me. Una sera, mentre tornavo dal lavoro, ebbi l’impressione di essere seguito. Le strade di Buenos Aires erano piene di vita, ma io mi sentivo intrappolato in una rete invisibile di sguardi indiscreti e segnali nascosti. La tensione cresceva, e sapevo che dovevo prendere una decisione prima che fosse troppo tardi. Dovevo agire, ma quale sarebbe stata la mia prossima mossa?
Giorni prima. Quando attraversai la strada, un’auto si fermò accanto a me e il conducente mi chiese la strada per Buenos Aires. Nell’auto c’erano quattro uomini che mi guardavano attentamente. Era strano che l’auto avesse targhe di Buenos Aires e il conducente mi chiedesse comunque la strada. Ma ero abbastanza stupido da calmare i miei sospetti con la spiegazione che probabilmente si trattava di un controllo di polizia, perché pochi mesi prima Israele aveva chiesto all’Interpol di estradarmi, richiesta che era stata rifiutata. Probabilmente – mi dissi – la polizia voleva ora solo verificare la mia identità in relazione a questa questione dell’Interpol. Nel peggiore dei casi, pensai, c’era la possibilità che venissi estradato in Germania, cosa che sarebbe stata giusta. Quindi non mi aspettavo in nessun caso un atto di violenza come quello che si verificò pochi giorni dopo alle 19:30.
Quella sera tutto era come sempre, quando ero sulla strada di casa di ritorno dalla fabbrica Mercedes. Era una sera di inizio inverno (in questa parte dell’anno non c’è primavera), avevamo la luna piena. Scesi alla solita fermata dell’autobus. Come al solito salutai il venditore di sigarette che stava al suo chiosco, attraversai la strada e camminai sul sentiero stretto che conduceva a casa mia. Quando mi avvicinai, vidi una grande auto privata parcheggiata a circa 20 metri da casa mia. Alcuni uomini sembravano lavorare intorno all’auto. Anche quando lo vidi, non ero particolarmente sospettoso. Ma quando mi trovai accanto a loro, quattro uomini si precipitarono su di me. Banditi! Questo fu il mio pensiero, mentre mi gettavano nel fosso accanto alla strada e mi immobilizzavano.
Persi i miei occhiali e la mia dentiera mi scivolò in gola, così che non potevo né vedere né chiamare aiuto. Oh mio Dio del cielo, ero così vicino alla mia famiglia, ai miei splendidi e forti ragazzi. E non potevo chiamarli, mentre i “banditi” mi afferravano per le braccia e le gambe, mi trascinavano nel veicolo e mi immobilizzavano. Da professionista in questo tipo di lavori, devo ammettere che questi uomini hanno svolto il loro compito in modo impeccabile e con grande precisione. Non sono stato picchiato più del necessario. È stato un lavoro elegante. Ma la mia ammirazione professionale svanì quando il veicolo si mise in movimento e uno degli uomini mi avvertì, con un accento tedesco-ebraico, che sarei stato ucciso se avessi opposto resistenza. Solo allora mi resi conto, con un leggero brivido, che non avevo a che fare con banditi sudamericani, ma con ebrei. Ora comprendevo che per me era iniziata la fine. Non potevo vedere dove mi stavano portando, perché mi avevano gettato un pesante telo sulla testa. Dopo circa 20 minuti, il veicolo sembrò svoltare da una strada principale a un percorso più stretto e poi fui trasportato in una casa. Lì fui spogliato con forza dai miei rapitori e mi fu messo un pigiama nuovo molto elegante. Mi esaminarono per verificare se avessi nascosto una capsula di cianuro di potassio per suicidarmi. Mi coprirono gli occhi con del nastro adesivo e mi stesero su un letto, legandomi i piedi a un’estremità del letto. Dovetti rimanere in quella posizione per diverse ore. Per mangiare, mi liberarono le mani, ma gli occhi rimasero bendati. Infine, mi lasciarono dormire. La colazione che mi fu servita il mattino seguente era buona.
Anche il cibo che mi fu servito mentre ero prigioniero era impeccabile. Non riuscivo a capire perché fossi trattenuto così a lungo. Sembrava che il piano dei miei rapitori non stesse procedendo come previsto. Durante questo tempo, sembravano più spaventati di me. Quando lo chiesi, mi diedero persino una bottiglia di vino rosso. Mi fu portata dall’uomo grande e molto muscoloso che mi aveva colpito durante il rapimento. Dopo due giorni, mi rasarono i capelli e mi rimossero il nastro adesivo dagli occhi. Mi misero degli occhiali senza lenti, sostituite da lenti di gomma. Attraverso la luce fioca che penetrava, riuscivo a vedere solo strani triangoli. Mentre giacevo lì legato, il mondo sembrava composto solo da triangoli, e mi sentivo come se fossi destinato a rimanere solo con essi per sempre. Durante tutto il tempo, una guardia rimase accanto al mio letto. Devo dire che, nonostante la situazione, il trattamento fu straordinariamente corretto. Quando mi lamentai del dolore alle caviglie causato dai legacci, la guardia li allentò subito. Di tanto in tanto, qualcuno entrava nella stanza. Non potevo vedere nulla attraverso i lenti di gomma, ma credevo di riconoscere la voce di colui che mi aveva interrogato per primo dopo la mia cattura. Continuava a ripetere che sarei stato giustiziato immediatamente se avessi causato problemi. Mi fece molte domande su altri tedeschi in Sud America. All’improvviso mi chiese: “Dov’è il dottor Mengele?” > Senza esitare risposi: “Non lo so. E anche se lo sapessi, non ve lo direi, perché sarebbe un tradimento nei confronti di un camerata del Reich”.
Il dottor Mengele è considerato uno dei peggiori medici e si dice che abbia condotto esperimenti sui bambini ebrei nei campi di concentramento, prima che venissero portati nelle camere a gas.
È vero che l’ho incontrato una o due volte in Argentina, ma non attribuivo alcuna importanza a frequentare persone del genere, poiché non mi aspettavo nulla da loro. Per questo motivo, anche se forse non era saggio essere così ostile nei confronti dei miei rapitori, non volevo tradirlo. Un altro uomo di cui mi hanno chiesto informazioni era un certo signor Sassen3, un giornalista che mi visitava spesso con un registratore per raccogliere la storia della mia vita. Gli avevo concesso il permesso di pubblicare queste testimonianze nel caso in cui fossi morto o caduto nelle mani degli israeliani. A quanto pare, ha già pubblicato qualcosa che viene considerato le mie memorie. Ma ciò che è stato pubblicato negli Stati Uniti è una serie di menzogne. Solo un pazzo potrebbe credere che io abbia scritto quelle parole. L’unico resoconto veritiero è quello che ho scritto nella mia cella.
I miei rapitori volevano sapere il significato di “OSKAR”, il nome con cui avevo firmato una lettera trovata nel mio libro. Ho detto loro che era un soprannome usato tra me e Sassen. In realtà, però, si trattava di un nome in codice segreto utilizzato tra ex membri delle SS dopo la guerra.
Dopo questo interrogatorio, ho avuto un attacco cardiaco. Tuttavia, non ne ho parlato, nonostante il dolore che provavo, perché mi dicevo che sarebbe stato meglio se un arresto cardiaco avesse posto fine a tutto. Sarei morto con un sorriso sulle labbra, con la sensazione di aver beffato i miei carcerieri. Ma sono sopravvissuto. E ora sono qui a Gerusalemme, in attesa di essere processato davanti agli occhi del mondo.
Durante i giorni trascorsi nell’attesa, mi è stato chiesto se fossi disposto ad affrontare un tribunale. “Naturalmente”, ho risposto, “se si trattasse di una corte neutrale, come quella della Svizzera o della Repubblica Federale Tedesca”.
Ma no. Mi fu comunicato che il processo si sarebbe svolto in Israele. Mi fu dato del tempo per accettarlo.Il giorno successivo mi liberarono dai ceppi, mi tolsero le lenti di gomma dagli occhi e mi sedettero a un tavolo su cui c’erano carta e penna. Mi fu dettato qualcosa e mi costrinsero a firmare ciò che avevo scritto.
Poco dopo fui portato in un’altra stanza e disteso su un tavolo. Mi misero un laccio intorno al braccio e mi fecero un’iniezione. Persi conoscenza.
Quando ripresi i sensi, mi trovavo in un’auto che correva velocemente. Non avevo nulla sugli occhi e vidi che l’ago dell’iniezione era ancora conficcato nel mio braccio. Quando l’uomo accanto a me si accorse che mi guardavo attorno, premette sulla siringa e persi di nuovo conoscenza.
Poi ricordo che eravamo su un aeroporto. Mi fecero salire le scale di un aereo, con accompagnatori ai lati e dietro di me che mi sorvegliavano. Per un istante sentii il desiderio di gridare aiuto. Dio mio! Quella era la mia ultima possibilità. Ma non uscì alcun suono dalla mia gola. Era come se fossi diventato muto.
Nell’aereo ripresi completamente conoscenza e non avvertii alcuna limitazione. Ero seduto nell’aereo, con un guardiano alla mia sinistra. Per un attimo vidi entrare una persona in uniforme da ufficiale – forse il pilota. Notò che lo guardavo e immediatamente mi furono rimesse le lenti di gomma. Quando l’aereo decollò, mi fu data una tazza di caffè nero. Sentivo delle voci, ma non riuscivo a vedere nulla. Credo che poi una hostess mi diede un succo di frutta e più tardi durante il volo mi servì del cibo.
Durante il volo verso il Medio Oriente facemmo uno scalo. Suppongo che fosse a Dakar, in Africa occidentale. Ma non posso esserne certo.
Arrivammo in Israele in una meravigliosa giornata di primavera.
Inizialmente fui portato in una stazione di polizia. Lì mi fu data un’uniforme e qualcosa da mangiare. Solo allora mi furono tolte le bende dagli occhi e vidi per la prima volta che, durante il volo, avevo indossato la divisa di un ufficiale dell’aviazione. Poi fui fotografato e mi presero le impronte digitali. Successivamente mi portarono davanti a un giudice, dove fui accusato di essere un criminale di guerra. Infine, sotto stretta sorveglianza, fui trasportato in prigione con delle auto della polizia, dove mi trovo da allora. Gli ebrei si preparavano a vendicarsi dell’SS-Obersturmbannführer Adolf Eichmann…
Come la razza ebraica fu condannata a morte
Non posso dimenticare gli orrori dei campi di concentramento. Le cose che ho visto lì mi hanno segnato profondamente e mi hanno fatto star male al punto che a volte dovevo restare seduto in silenzio per mezz’ora prima di poter dare l’ordine di partenza al mio autista. Un’esperienza del genere l’ho vissuta ad Auschwitz. Non riesco a cancellarla dalla mia memoria: un gruppo di ebrei era stato spinto in una fossa, sopra di loro attendeva il plotone di esecuzione con le mitragliatrici. Improvvisamente vidi un bambino di circa due anni che la madre teneva in alto. Involontariamente gridai: ‘Non sparate, c’è un bambino!’ Ma nello stesso istante le mitragliatrici iniziarono a sparare e prima che potessi rendermi conto di cosa stesse accadendo, il mio autista stava cercando di pulire dal mio cappotto di pelle parti del cervello del bambino… Il liquido spruzzato era impossibile da cancellare. Ero troppo vicino al bambino che, istintivamente, avevo cercato di salvare.
Tutto era durato appena due secondi, forse di più, non lo so con certezza. Ma ciò che so è che il ricordo di quell’evento mi ha tormentato innumerevoli volte. È ovvio che non ero responsabile del massacro e del bagno di sangue, che non può essere negato.
Non ho mai ucciso un ebreo né ordinato l’uccisione di un ebreo. Non avevo nulla a che fare con ciò che accadeva nei campi di concentramento. Il mio compito era esclusivamente organizzare il trasporto degli ebrei verso i campi. Questo era il mio unico incarico, e credo di poter dire di averlo eseguito con efficienza.
I miei strumenti erano carta e matita; non ho sangue sulle mani. Tuttavia, di tanto in tanto, mi veniva ordinato di visitare i campi per controllare che la mia merce fosse arrivata regolarmente. Quello che ho visto lì ha gradualmente tolto la gioia dal mio lavoro di amministrazione.
Dio mio! Certo, non ho dato l’ordine per gli orrori di Auschwitz. Ma come avrei potuto impedirlo? Come avrei potuto rifiutare di eseguire gli ordini? Come Obersturmbannführer delle SS, ero vincolato al giuramento di fedeltà e al dovere verso la mia patria.
Quando, nella mia cella di prigionia, ripercorro con orrore questi ricordi, mi capita di tornare ancora più indietro con il pensiero e chiedermi come sono finito a essere parte di tutto questo. Ma è stato tutto incredibilmente semplice!
Tutto è cominciato nel 1932 a Linz, in Austria, dove trascorsi la mia giovinezza… Durante quel periodo, l’atmosfera era pervasa da idee ardenti e entusiaste, e tutti noi eravamo giovani, pieni di fuoco e passione. Una sera si tenne un raduno del Partito Nazionalsocialista dei Lavoratori Tedeschi. Il relatore dell’evento era un giovane carismatico, Ernst Kaltenbrunner, che conoscevo fin da bambino. Dopo la conferenza, si avvicinò a me e disse: ‘Tu verrai con noi!’ Non avevo motivo di rifiutare. E così diventai nazista. Avevo compiuto il primo passo su un cammino che mi avrebbe infine condotto in questa prigione ebraica.
Mi unii rapidamente alle SS, il corpo d’élite dei seguaci di Hitler. Ora so, naturalmente, che molte azioni terribili furono compiute in nome di Hitler e delle SS, ma in quei giorni di esordio tutto sembrava parte di una gloriosa crociata.
Dopo un certo periodo, i miei superiori nelle SS mi affidarono un’unità incaricata dell’emigrazione degli ebrei. Posso sottolineare esplicitamente: emigrazione, nulla di più. Il mio compito era organizzare tutto per gli ebrei che dovevano lasciare la Germania4. Ho svolto questo incarico. In questa posizione, partecipai anche alla famigerata Conferenza di Wannsee, tenutasi il 20 gennaio 1942 a Berlino. Fu una conferenza dei leader nazisti, convocata per discutere la ‘soluzione finale della questione ebraica’.
Questa è stata una conferenza in cui è stata presa la decisione di eliminare per sempre la razza ebraica in Europa. Mi hanno accusato di aver organizzato questa terribile conferenza. Questo è completamente assurdo. Il mio compito era solo quello di documentare correttamente le trattative, come ordinato dal mio superiore, il generale maggiore Müller. La maggior parte del tempo l’ho trascorsa a temperare le matite per la stenografia.
È stata una conferenza memorabile, alla quale hanno partecipato undici importanti personalità del Reich. Il capo della Gestapo, Reinhard Heydrich, ha presieduto la riunione. […]
Tutti ascoltavano attentamente mentre Heydrich spiegava la linea guida del Führer per la gestione della questione ebraica. Non si è alzata una sola voce di dissenso. Ad ogni pausa, annuivano vigorosamente con la testa, sebbene fosse chiaro che la ‘soluzione finale’ significava nient’altro che l’annientamento.
Sono rimasto estremamente sorpreso dalla completa unanimità tra queste personalità di alto rango. Nel mio ambito lavorativo ero abituato a resistenze burocratiche, ritardi nelle decisioni, regolamenti e abitudini. Ma qui non c’era esitazione, nessuna opposizione, nessuna divergenza di opinioni. Le decisioni, in base alle quali milioni di persone sarebbero state condannate a morte, venivano prese con una rapidità e unanimità impressionanti.
Ogni partecipante a questa conferenza era euforico per la grandezza del piano. Dopo Heydrich, anche gli altri si alzarono per esprimere il loro consenso.
Per esempio, il generale delle SS Hoffmann dell’Ufficio Razza delle SS dichiarò: ‘C’è solo una soluzione: la sterilizzazione di queste persone.’ E il dottor Stuckart del Ministero degli Interni aggiunse: ‘Sterilizzazione? Sì, ma con la forza.’
Sterilizzazione, sterminio, annientamento… le parole venivano scambiate liberamente […], mentre si condannava a morte un’intera popolazione. Il dottor Bühler, rappresentante del Governatore Generale di Polonia, dichiarò che avrebbe accolto con favore l’inizio della ‘soluzione finale’ – intendendo la liquidazione degli ebrei – nel suo territorio, poiché lì erano già concentrati, rendendo più semplice la questione del trasporto. Si può dire che tutto fosse perfettamente pianificato: gli ebrei in Europa sarebbero stati spinti in trappola da ogni lato.
Heydrich raggiante, mentre i potenti accettavano senza eccezioni le sue proposte. Era arrivato all’incontro aspettandosi resistenze burocratiche.
Nessuno ostacolò il piano, nessuna difficoltà fu opposta, non un solo ostacolo fu posto sul cammino. Cosa mai avrei potuto fare per cambiare ciò? Io, che sedevo su una piccola sedia accanto alla stenografa! Avrei forse dovuto alzarmi e dire: ‘Obergruppenführer, signori stimati, pensavo che questa conferenza riguardasse l’emigrazione degli ebrei. Sono sorpreso di sentirvi parlare del loro sterminio.’
Nel migliore dei casi, mi avrebbero internato in un manicomio. Ma più probabilmente, sarei stato immediatamente giustiziato per sabotaggio di un ordine del Führer, e la mia famiglia sarebbe stata liquidata.
Prima di questa terribile conferenza e delle decisioni lì prese, avevo lavorato a piani per l’evacuazione di massa degli ebrei verso la Palestina. Protestare contro la volontà dell’élite era inutile. Non mi rimaneva altra scelta se non tacere, legato dal giuramento di fedeltà e dall’obbligo di servizio, e compiere il mio dovere.
Poco dopo ricevetti i miei ordini. E la morte iniziò a bussare alle porte in tutta Europa. Io lo sapevo, e tuttavia non potevo fare nulla per impedirlo.
Questi ed altri particolari potrete trovarli descritti, con dovizia di particolari, nel volume