Il Duce nel mirino: l’attentato fallito di Zaniboni che spianò la strada alla svolta autoritaria
Il 4 novembre 1925, il deputato socialista Tito Zaniboni fu arrestato nella stanza 90 dell’Hotel Dragoni, da cui intendeva sparare a Benito Mussolini mentre si affacciava da Palazzo Chigi per celebrare l’anniversario della Vittoria. Il piano, ideato con il generale Luigi Capello, prevedeva l’uso di un fucile di precisione austriaco. L’attentato fu sventato grazie a un’azione preventiva della polizia, probabilmente informata da ambienti interni. L’episodio fu strumentalizzato dal regime per colpire l’opposizione politica e la massoneria, con l’occupazione di Palazzo Giustiniani e l’arresto di figure chiave. Il fallito attentato segnò una svolta nella repressione fascista e nella costruzione del culto del Duce.
Roma, 4 novembre 1925: mentre Benito Mussolini si appresta ad affacciarsi da Palazzo Chigi per celebrare l’anniversario della vittoria italiana nella Grande Guerra, a pochi metri di distanza, nella stanza 90 dell’Hotel Dragoni, un esponente socialista punta un fucile di precisione verso la finestra da dove il duce dovev pronunciare il suo discorso celebrativo. Il suo nome è Tito Zaniboni, e il suo obiettivo è piuttosto chiaro: colpire il duce e assestare un colpo decisivo al regime prima che sia troppo tardi. Ma il colpo non parte. La polizia irrompe nella stanza, arresta Zaniboni e sventa il primo attentato politico contro Mussolini. In poche ore, il fallimento si trasforma in propaganda. Il regime fascista coglie l’occasione per reprimere l’opposizione, colpire la massoneria e consolidare il culto del capo. Quello che doveva essere un gesto estremo di resistenza diventa il pretesto per una svolta autoritaria. E la storia, da quel giorno, cambia direzione.
A progettare l’azione fu Tito Zaniboni, deputato socialista unitario, ex sottotenente di complemento del 6° Reggimento Alpini ed amico di Matteotti, che aveva pianificato di colpire il capo del governo da una finestra dell’Hotel Dragoni, a pochi passi da Palazzo Chigi. Alle 8:30 in punto, la polizia fece irruzione nella camera n. 90 dove sorprese Zaniboni, pronto a colpire Mussolini con un fucile di precisione austriaco, riuscendo così a sventare l’attentato. Il Duce, infatti, di lì a poco, si sarebbe affacciato alla finestra per salutare reduci e veterani: questa era proprio l’occasione che Zaniboni attendeva da tempo per vendicare l’assassinio di Giacomo Matteotti e, nelle sue intenzioni, porre fine alla dittatura fascista.
Tito Zaniboni
Il complotto e i complici
Zaniboni, tuttavia, non agì da solo. Al suo fianco c’era Carlo Quaglia, giovane studente di giurisprudenza e giornalista, che aveva prenotato la stanza d’albergo e predisposto un’auto per la fuga nei pressi di Piazza San Claudio. Altri sostenitori, tra cui alcuni ex commilitoni, contribuirono a finanziare l’impresa. Tra i nomi coinvolti comparve anche quello del generale Luigi Capello, massone come Zaniboni, accusato di complicità ma la cui reale partecipazione rimase controversa. Nella preparazione del piano, il deputato ebbe contatti con l’ex Gran Maestro della massoneria Domizio Torrigiani e, soprattutto, con il generale Luigi Capello, la cui effettiva partecipazione al complotto rimase tuttavia incerta. A tradirlo fu invece Carlo Quaglia, giovane da lui ritenuto un alleato fidato, che informò la polizia dei dettagli dell’attentato. Le forze dell’ordine, già in allerta, seguirono ogni suo movimento e lo arrestarono nella stanza dell’albergo, dove l’arma era stata predisposta, appena due ore prima del previsto discorso di Mussolini. Il giorno successivo fu fermato anche Capello a Torino, accusato di voler riparare in Francia.
Le ricostruzioni storiche più accreditate indicano che fu proprio il giovane Carlo Quaglia, studente di giurisprudenza e giornalista, l’informatore che tradì Tito Zaniboni. Egli mantenne un contatto costante con il questore Giuseppe Dosi, permettendo alla polizia di seguire ogni mossa del deputato socialista e di arrestarlo il 4 novembre 1925 all’Hotel Dragoni di Roma.
Fu proprio colui che Zaniboni considerava il suo più fidato collaboratore a determinarne la rovina. Carlo Quaglia, giovane studente di giurisprudenza poco più che ventenne, noto anche come redattore del quotidiano del Partito Popolare Il Popolo, si rivelò infatti l’anello debole del complotto. A lui si deve la prenotazione della camera n. 90 dell’Hotel Dragoni, intestata a un prestanome, il posizionamento del fucile nell’armadio e persino la predisposizione dell’automobile per la fuga. Ma Quaglia, in costante contatto con il questore Giuseppe Dosi, agiva in realtà come informatore della polizia politica, consentendo alle autorità di sorvegliare ogni mossa del deputato socialista e di intervenire al momento opportuno. Dopo la laurea, il giovane si trasferì in Africa, dove – secondo alcune testimonianze – esercitò la professione forense in Somalia.
L’arresto e la costruzione del mito
Zaniboni fu dunque lasciato agire fino all’ultimo, così da essere colto in flagrante e trascinato in arresto insieme ai presunti complici, con l’ovvia eccezione di Quaglia. L’operazione offrì a Mussolini il pretesto per un’ulteriore stretta autoritaria. Non è chiaro se il Duce fosse stato informato del complotto sin dall’inizio o se ne venne a conoscenza solo dopo la cattura, ma l’effetto politico fu evidente: l’episodio contribuì a rafforzarne l’immagine di vittima designata, rinsaldando attorno a lui anche quei fascisti che l’omicidio Matteotti aveva lasciato perplessi.
Alle 8:30 del mattino del 4 novembre 1925 la trappola scattò: quando Zaniboni e Quaglia entrarono nella stanza d’albergo, furono accolti da una squadra di agenti guidati dal vicequestore Enrico Belloni. Quaglia venne immediatamente rilasciato, mentre Zaniboni fu incarcerato. La notizia, diffusa solo il giorno successivo, suscitò enorme clamore: era il primo tentativo di attentare alla vita di Mussolini, cui seguirono, in rapida successione, quelli di Violet Gibson, Gino Lucetti e Anteo Zamboni. Nella stanza furono rinvenuti il fucile di precisione austriacoSteyr‑Mannlicher M1895 e altri materiali predisposti per l’attentato.
Ma ecco la ricostruzione dei fatti che riportò l’organo ufficiale del Partito Socilaista Avanti in un articolo in prima pagina nell’edizione del 6 novembre 1925 dal titolo “L’arresto del generale Capello e dell’on. Zaniboni sotto l’accusa di complotto contro la persona dell’on. Mussolini. Il Governo ordinò l’occupazione delle Logge massoniche, lo scioglimento del Partito unitario e la sospensione della “Giustizia”:
Avanti del 6 novembre 1925
E ieri mattina alle 6.30 colui che avrebbe dovuto occupare la stanza 90 giunse all’albergo in automobile. Vestiva la divisa di maggiore degli alpini, col colletto rovesciato, sotto il quale appariva la camicia nera. Il petto aveva fregiato di varie decorazioni o camminava a stento. Si qualificò per il maggiore Silvestrini, proveniente da Bologna, e specificò che un suo amico aveva dovuto fissare per lui una stanza su via del Tritone. – Ah! è lei?, fece il direttore, benissimo! Meglio di così non potrà stare! Venga.
Il supposto maggiore Silvestrini, visita la camera, rimase assai soddisfatto. Si affacciò più volte alla finestra, guardò di qua e di là; poi chiuse le persiane e il cameriere che lo aveva accompagnato si ritirò in buon ordine. Erano le 8,45. Il direttore dell’albergo stava sul balcone che si apre proprio di fianco alla finestra della camera occupata dal maggiore ad assistere al passaggio dei vari reparti di truppe che si recavano, preceduti dalla musica dei carabinieri, all’Altare della Patria per fare ala al passaggio del corteo dei membri del Governo.
L’arresto
Alle note della marcia dei carabinieri anche il maggiore si è affacciato e il signor Dragoni, che, tra parentesi, è un fervente fascista, ha notato che il nuovo cliente lo guardava con insistenza. Il direttore ha notato anche che il maggiore non ha lasciato che passasse tutto il corteo ma ha chiuso bruscamente le persiane, sollevando poco dopo una delle piccole gelosie che ha fissato coll’asticciuola di ferro apposita, in modo da lasciare uno spiraglio, poi si era ritirato. Erano le 9, o poco meno, quando l’amico che aveva fissato la stanza – e che si presume sia il Quaglia, poi arrestato – si è presentato al «concierge» per mandare se fosse giunto il Silvestrini. Ha risposto affermativamente. L’individuo è salito al primo piano, si è trattenuto dieci minuti col maggiore, e poi è sceso nuovamente, uscendo dall’albergo Alle 9,30 precise scendevano da una automobile, dinnanzi alla porta dell’albergo, il commissario capo della squadra politica comm. Belloni, in unione al maresciallo cav. Quagliotti e al commissario cav. Enrico, accompagnati da alcuni agenti in borghese. Subito saputo la camera che occupava il supposto maggiore Silvestrini, commissari e agenti precipitarono al primo piano, bussarono alla porta della stanza; si udì un rumore come se chi fosse nell’interno chiudesse i bauli e muovesse dei mobili, poi l’uscio si aprì e comparve il finto maggiore Silvestrini che altro non era se non l’on. Zaniboni.
L’ex deputato rimase lì per lì turbato dalla presenza dei funzionari, ma poi si ricompose subito e chiese cosa essi desiderassero. Il commissario Belloni si precipitò nella stanza e gli altri agenti lo imitarono, e mentre due dei più robusti fermavano l’on. Zaniboni, i funzionari andarono diretti alla finestra presso la quale era uno sportello che era stato tolto dall’imposta sinistra. Dietro lo sportello si celava un fucile la cui canna, poggiando su di un piano della persiana, era uno strumento pericoloso; un fucile con cannocchiale fabbricato in Austria, di quelli che in guerra si chiamavano i cosiddetti «cecchini». La canna, come dicevamo, era appoggiata sulla gelosia, della persiana ed era rivolta proprio verso il balcone di Palazzo Chigi:
Nella stanza, oltre il fucile, l’on. Zaniboni aveva portato tre valigie di cuoio e una cassetta di quelle uso militare. L’ex deputato non ha fatto nessuna resistenza alla dichiarazione di arresto e ha seguito i funzionari senza pronunciare parola. Fuori dall’albergo attendeva un’automobile sulla quale l’on. Zaniboni è stato fatto salire e condotto in Questura alla presenza del reggente la Questura, comm. Perilli.
L’automobile e il fucile
Venne quindi rinchiuso, dopo un lungo interrogatorio, nella stanza del commend. Belloni dove fino a questa mattina ancora si trovava. Mentre il commissario Belloni conduceva in Questura l’on. Zaniboni, il commissario Errico si recava in piazza San Claudio, dove erano ferme varie automobili e tra queste una «lambda» nuovissima. La vettura attendeva l’ex deputato, il quale, fatto il colpo, approfittando della confusione, sarebbe uscito indisturbato dall’albergo e si sarebbe allontanato dentro l’auto per mettersi in salvo.
Nella vettura, a quanto si afferma, c’è anche una buona provvista di cibarie, per un lungo viaggio. La «lambda venne subito portata in Questura e con essa il conducente di cui tuttora ignoriamo il nome.
Sembra pure che in via del Tritone si trovassero già dalle 8.30 vari individui vestiti in camicia nera, i quali al momento opportuno per generare maggiore confusione avrebbero dovuto sparare dei colpi in aria gridando: A noi!, in modo da poter favorire maggiormente la fuga all’ex deputato. Questo le notizie che abbiamo potuto raccogliere, ma si afferma che la polizia sia sulle tracce degli altri complici di questa macchinazione infernale. Il fucile che doveva servire all’attentato è nuovissimo. Il caricatore è nascosto nella cassa e sopra, vicino al cane, invisibile, vi è un lungo cannocchiale che permette di avvicinare sino a pochi centimetri il bersaglio. Insieme al fucile sono state sequestrate nell’ultima stanza dell’Hotel Dragoni tre valigie di cuoio giallo sulle quali sono applicati dei cartellini di carta rosa coi nomi la stanza dell’Hotel Dragoni tre valigie contengono due vestiti borghesi, due paia di scarpe, molti fazzoletti, una sciarpa di seta, alcuni solini e sei camicie fantasia. Tutta questa roba si trova ora negli uffici della Questura centrale.
Questi i particolari dell’Idea Nazionale, Va notato che la fascista Epoca è molto più parca di notizie del giornale nazionalista; essa dà la notizia che l’ex deputato socialista sarebbe stato arrestato non appena posto piede nell’albergo, mentre saliva le scale e quindi prima di fare i preparativi dei quali parla l’Idea Nazionale.
Non vale la pena di seguire gli altri giornali nella ricostruzione del mancato attentato. Così pure è superfluo dire che nel campo fascista queste notizie hanno prodotto fermento. I fascisti romani sono stati convocati questa sera in piazza Colonna: dal balcone di Palazzo Chigi ha parlato l’on. Mussolini. Egli ha chiesto ai fascisti di essere disciplinati, di evitare le rappresaglie personali e le violenze e di avere fiducia nel Governo che ha già preso i provvedimenti del caso ed altri ne prenderà.
Non si dà infatti notizia, finora, di incidenti di notevole gravità. In sostanza dunque la versione della Questura e quella dei giornali, tendono a fare credere a un vasto complotto di origine, o per lo meno di ispirazione massonica. Da ciò l’arresto del generale Capello, che fu il comandante della II Armata in guerra (da ciò i provvedimenti contro le Loggie).
La sospensione della Giustizia viene messa in relazione al fatto che l’on. Zaniboni dopo la scissione di Roma seguì i riformisti, e nelle elezioni del 6 aprile fu il loro candidato. Come è noto molti mesi fa volontariamente l’on. Zaniboni abbandonò ogni milizia di Partito. Non si vede quindi come sarebbe possibile addossare la responsabilità dei suoi atti – dato che il racconto della stampa sia vero – a un intero Partito.
D’altro canto a proposito della grave accusa implicita nel provvedimento contro il Partito unitario e la Giustizia, non c’è bisogno di rilevare che i Partiti socialisti per dottrina, metodo ed azione, non complottano
Sui nuovi provvedimenti annunziati dall’on. Mussolini nel discorso di questa sera, nessuno è in grado di fare indiscrezioni.
La Stampa del 7 novembre 1925
La detenzione
Durante la lunga detenzione, Zaniboni mostrò un atteggiamento contraddittorio: da un lato lettere di ringraziamento a Mussolini per l’aiuto economico concesso alla figlia Bruna, dall’altro dichiarazioni di simpatia verso il regime, mai però tradotte in adesione formale. Liberato l’8 settembre 1943, l’anno successivo accettò dal governo Badoglio l’incarico di Alto Commissario per l’epurazione nazionale dal fascismo, scelta che gli costò l’espulsione dal Psi.
L’attentato contro Mussolini ebbe ripercussioni non soltanto sul piano politico, ma anche nella vita privata di chi vi era indirettamente coinvolto. La famiglia dell’attentatore fu immediatamente colpita da un clima di sospetto e di isolamento sociale: i parenti vennero emarginati, sottoposti a minacce e a una pressione costante da parte delle autorità e della comunità locale, che li considerava corresponsabili del gesto.
Le sorelle, Bianca e Tecla, furono oggetto di particolare ostilità: la loro quotidianità venne segnata da insulti, intimidazioni e da una sorveglianza continua. L’ombra del cognome Zaniboni divenne un marchio infamante, capace di cancellare ogni distinzione tra responsabilità individuale e appartenenza familiare.
Il regime fascista sfruttò l’episodio per rafforzare la propria propaganda, presentando l’attentato come la prova dell’esistenza di un “nemico interno” da estirpare con fermezza. La reazione delle autorità fu rapida e implacabile: oltre alle misure repressive contro gli oppositori politici, si alimentò un clima di paura e di sospetto che colpì anche semplici cittadini, accusati di simpatizzare con l’attentatore o di non mostrare sufficiente entusiasmo per il regime.
La vicenda contribuì a consolidare l’immagine di Mussolini come leader “miracolato”, scampato alla morte per volontà del destino o della Provvidenza, e servì a rinsaldare la compattezza del fronte fascista. Al tempo stesso, però, mise in luce la brutalità con cui il regime era disposto a colpire non solo i suoi avversari diretti, ma anche chiunque fosse legato a essi da vincoli familiari o di amicizia.
L’attentato Zaniboni tra complotto e propaganda: i dubbi di Giovanni Amendola
L’arresto di Tito Zaniboni segnò un momento cruciale nella strategia politica del fascismo. L’episodio, gestito con grande abilità dalle autorità, fu trasformato in un’occasione per consolidare il potere del regime e accelerare il processo di normalizzazione autoritaria.
Il 21 novembre 1925, Giovanni Amendola, tra i principali esponenti dell’antifascismo democratico, mise per iscritto i propri sospetti in una lettera indirizzata al deputato fiorentino Dino Philipson (1883‑1972), un ebreo proprietario terriero di formazione liberal‑conservatrice, eletto nel “listone” fascista alle elezioni del 1921. Tuttavia, la sua parabola politica prese presto un’altra direzione: malvisto dagli intransigenti e ricambiando l’ostilità, nel 1923 fu espulso dal PNF e l’anno successivo non venne ricandidato. Da quel momento iniziò un progressivo avvicinamento all’antifascismo, che lo avrebbe condotto all’esilio negli anni Trenta. In questa lettera autografa di quattro pagine, redatta su carta intestata della Camera dei Deputati e datata Roma, 21 novembre 1925 Amendola esprime con tono critico e scettico le proprie valutazioni sulle decisioni prese in merito all’attentato contro Benito Mussolini avvenuto nel novembre 1925, arrivando persino a dubitare della reale dinamica dell’episodio esprimendo forti perplessità sulla versione ufficiale diffusa dalla stampa italiana. In una lettera, arrivò a ipotizzare che l’intera vicenda fosse stata costruita ad arte dal regime:
Gli sforzi che il nostro paterno Governo compie per montare il complotto o le complicità nell’attentato che non ci fu (…) non riescono a concludere un bel nulla. La mia impressione, sebbene tutto si svolga nel massimo segreto, è che, siccome non c’è stato nulla, non riusciranno a fabbricare un bel nulla.
La missiva proseguiva con osservazioni sul clima di repressione che si respirava in Italia, denunciando le perquisizioni e gli interrogatori subiti da noti antifascisti come Roberto Bencivenga, e sottolineando come anche un gesto insignificante potesse trasformarsi in pretesto per persecuzioni poliziesche. Amendola criticava inoltre la propaganda del regime, ricordando che durante la visita di Mussolini a Parma le manifestazioni di entusiasmo erano state costruite artificialmente: centinaia di antifascisti arrestati il giorno prima e migliaia di sostenitori fatti affluire dalle campagne circostanti.
La repressione e il processo
Il magistrato Rosario Macerano, incaricato delle indagini, si mosse con rapidità, mentre la polizia e gli apparati di sicurezza enfatizzarono la gravità del complotto, presentandolo come una minaccia imminente alla vita del capo del governo. L’arresto di Zaniboni, colto in flagrante all’Hotel Dragoni, fu seguito da una campagna propagandistica che dipinse Mussolini come vittima designata e “miracolato” dalla sorte.
Il governo, guidato da Mussolini, sfruttò immediatamente l’occasione. Figure di primo piano come Luigi Federzoni e Roberto Farinacci sostennero la necessità di una stretta repressiva, trasformando l’attentato fallito in un pretesto per colpire l’opposizione politica e rafforzare la disciplina interna al partito.
Le conseguenze furono rapide e incisive: il Partito Socialista Unitario venne sciolto, le logge massoniche furono occupate e smantellate, mentre la stampa fascista orchestrava una campagna di mobilitazione nazionale. L’episodio contribuì a creare un clima di paura e di sospetto, utile a giustificare l’approvazione di nuove leggi restrittive e a ridurre ulteriormente lo spazio di manovra degli antifascisti.
Tito Zaniboni ribadì con fermezza di aver agito in totale autonomia: dall’approvvigionamento delle armi e della divisa da ufficiale, fino alla prenotazione delle camere d’albergo a Roma, senza mai coinvolgere il suo segretario Carlo Quaglia. Con la stessa determinazione, si adoperò per scagionare i suoi coimputati, arrivando a pronunciare una dichiarazione sorprendente e quasi paradossale: «Ringrazio la Questura per avermi fermato in tempo, la mia fine era segnata!».
Il 28 luglio 1926 Zaniboni fu rinviato a giudizio davanti alla Corte d’Assise di Roma, insieme al generale Luigi Capello, a Ulisse Ducci e a sei antifascisti friulani – Ferruccio Nicoloso, Luigi e Angelo Calligaro, Ugo Enzo Riva, Ezio Celotti e Angelo Ursella – già detenuti da otto mesi, ad eccezione di quest’ultimo, rifugiatosi in Austria. Cinque imputati furono assolti e liberati, tra cui l’albergatrice Lucia Pauluzzi, ma la lunga detenzione preventiva – un anno e nove mesi – lasciò su di loro un segno indelebile.
Se la responsabilità di Zaniboni nell’organizzazione dell’attentato appariva evidente, le accuse contro Capello si riducevano a una semplice elargizione di mille lire, mentre nei confronti dei friulani emersero soltanto indizi labili e inconsistenti.
Diversa la sorte di Domizio Torrigiani, ex Gran Maestro della massoneria: prosciolto inizialmente e rientrato in Italia dalla Francia, fu arrestato all’alba del 23 aprile 1927 nella sua abitazione e condannato a cinque anni di confino, prima a Lipari e poi a Ponza. Le sue già precarie condizioni di salute trasformarono quella pena in una vera e propria condanna a morte: Torrigiani si spense infatti in stato di agonia nell’aprile del 1932.
Nell’ottobre del 1926 la Corte di Cassazione dispose il trasferimento del procedimento contro Tito Zaniboni alla Corte d’Assise di Siena. Poche settimane più tardi, a metà novembre, il fascismo compì un ulteriore passo decisivo: il caso fu assegnato al neonato Tribunale speciale per la difesa dello Stato, creato ad hoc per assicurare una gestione processuale conforme agli interessi politici del regime e garantire una sentenza già orientata.
L’istituzione di questo organo giudiziario fu resa possibile dalle cosiddette “leggi fascistissime” del novembre 1926, che segnarono una tappa fondamentale nella costruzione della dittatura. Esse introdussero un tribunale politico composto in larga parte da membri della Milizia, espressione diretta del potere fascista. A tale struttura fu affidato, nell’aprile 1927, il processo per l’attentato a Mussolini, con l’obiettivo di dare veste giuridica a una narrazione propagandistica che il regime aveva già avviato sin dal novembre 1925.
L’assegnazione del procedimento a un tribunale che non esisteva al momento dei fatti costituiva una palese violazione del principio di irretroattività della legge penale. Tuttavia, nell’Italia fascista ciò non rappresentò un ostacolo: durante i lunghi mesi di detenzione preventiva degli imputati, il regime aveva ormai consolidato il proprio potere, soffocando ogni forma di opposizione e riducendo al silenzio le voci critiche.
Dietro la facciata di una giustizia apparente si celava in realtà la tragedia personale di un uomo ormai spezzato. La condanna di Zaniboni ebbe ripercussioni devastanti anche sul piano familiare: amici e conoscenti si allontanarono, la moglie e la figlia adolescente, profondamente segnate dagli eventi, si ammalarono gravemente, mentre la sorella Tecla lo rinnegò pubblicamente già a partire dal 4 novembre, giorno dell’arresto.
Nel 1925, come forma di espiazione per il gesto compiuto da Tito Zaniboni, un familiare vestì a lutto, salvo poi riallacciare i rapporti con lui con l’intento di ricondurlo al fascismo. Su consiglio della moglie, lo stesso Zaniboni nominò come difensore di fiducia Bruno Cassinelli (Firenze 1893 – Roma 1970), deputato socialista eletto con grande consenso nella circoscrizione Lazio‑Umbria alle elezioni del 1924, ma ormai trasformatosi in informatore della polizia.
L’avvocato, lungi dal difendere realmente il suo assistito, lo convinse a rinunciare alla convocazione dei testimoni a discarico, giustificando la scelta con il pretesto di volerli sottrarre a possibili ritorsioni. In realtà, la sua strategia processuale risultò funzionale all’accusa. Cassinelli arrivò persino a presentarsi in terza persona nei rapporti con il capo della polizia, vantandosi di aver persuaso l’imputato a non creare scandali né a contestare i testimoni, così da evitare incidenti che potessero avere eco internazionale e danneggiare l’immagine del fascismo.
In privato, tuttavia, Cassinelli dimostrava di conoscere bene i retroscena, arrivando ad ammettere che l’accusa contro Zaniboni fosse una montatura orchestrata al Viminale. Nonostante ciò, in sede giudiziaria si adoperò per impedire che tale verità emergesse. Oltre a incontrare periodicamente dirigenti della Pubblica Sicurezza e a redigere memoriali basati sulle confidenze del suo assistito, Cassinelli si riunì segretamente con Carlo Quaglia al Metropolitan Hotel, riferendo poi in un rapporto intriso di sospetto: “La reticenza del Quaglia non potrebbe preludere a un possibile ricatto?”. Rivalità e gelosie dividevano i due informatori, entrambi intenti a manipolare Zaniboni: l’uno nella fase preparatoria dell’attentato, l’altro dopo l’arresto.
A metà marzo 1927, Zaniboni chiese al suo legale di attivare una rete di sostegno composta da alcune sue ex amanti. Cassinelli, fedele al suo doppio gioco, riferì immediatamente la richiesta al capo della polizia, domandando istruzioni. Segnalò inoltre che alcune donne legate sentimentalmente all’ex deputato custodivano segreti compromettenti per Mussolini, ricordando come la contessa Martin fosse stata contemporaneamente amante del Duce e di Zaniboni, e dunque a conoscenza dei preparativi dell’attentato.
Ricevuto l’ordine di non muoversi, Cassinelli si adeguò, deludendo il suo assistito e alimentandone i sospetti. Zaniboni, amareggiato, confidò il proprio disappunto al comandante delle guardie di Regina Coeli, che naturalmente riferirono tutto alla polizia politica. Nonostante ciò, su pressione della moglie, l’ex deputato confermò il mandato al discusso avvocato, continuando a subire la sua influenza e le sue manipolazioni.
In origine la presidenza del tribunale avrebbe dovuto essere affidata al generale Carlo Sanna, che durante la Grande Guerra aveva servito sotto gli ordini di Luigi Capello. Per non trovarsi nella posizione di dover condannare il suo ex superiore, Sanna preferì rinunciare all’incarico. La guida del collegio passò così a Ottavio Freri, promosso per l’occasione a comandante di divisione. Accanto a lui, in qualità di consiglieri, sedevano i consoli della Milizia Guido Cristini e Antonino Tringali Casanova, due gerarchi ambiziosi che colsero l’occasione per mettersi in luce agli occhi del Duce. Entrambi, non a caso, sarebbero poi diventati presidenti del Tribunale speciale per la difesa dello Stato.
La seduta inaugurale si tenne lunedì 11 aprile 1927. Il Palazzo di Giustizia era circondato da un imponente servizio d’ordine composto da carabinieri e camicie nere, a sottolineare la portata politica del processo. L’aula IV, predisposta come un palcoscenico, esponeva davanti al gabbione degli imputati un tavolo con il fucile di precisione, la pistola e gli altri oggetti sequestrati all’Hotel Dragoni la mattina del 4 novembre 1925.
Le cronache giornalistiche descrissero Tito Zaniboni in abito e cravatta neri, con un atteggiamento che celava dietro un sorriso ironico la gravità della situazione. Diversa l’immagine del generale Capello, apparso visibilmente provato, dimagrito e afflitto dall’angina pectoris. In virtù del suo rango, fu l’unico imputato autorizzato a sedere fuori dal gabbione.
Durante la fase istruttoria, l’ex deputato socialista aveva cercato di ridimensionare le accuse, sostenendo di non aver mai avuto l’intenzione di attentare alla vita di Mussolini, ma, al massimo, di voler colpire Roberto Farinacci, figura di spicco del fascismo radicale.
Tuttavia, nel corso del dibattimento, giunse un colpo di scena: Zaniboni, con tono fermo e inatteso, rivendicò apertamente la propria responsabilità, dichiarando senza esitazioni:
Affermo con chiarezza che il 4 novembre 1925 era mia intenzione sopprimere il Capo del Governo, Benito Mussolini. Se la Pubblica Sicurezza, invece di intervenire all’Hotel Dragoni alle 8:30, fosse arrivata soltanto alle 12:30, io avrei senza dubbio portato a termine il mio gesto. L’atto aveva lo scopo di restituire il potere nelle mani di Sua Maestà il Re.
La lettura del voluminoso atto d’accusa occupò oltre mezz’ora, seguita da due ore di esposizione dei rapporti delle questure di Milano, Torino, Catania, Pavia e Udine, che ricostruivano le varie fasi del presunto complotto. Vennero poi illustrate le perizie sulle armi, sorvolando però sul difetto al grilletto del fucile austriaco, e le modalità tecniche dell’ipotetico attentato.
Quando gli fu concessa la parola, il generale Capello chiese subito di difendersi, respingendo con fermezza ogni addebito. L’accusa di complicità in un progetto omicida – dichiarò indignato – «ripugna al mio animo, sempre estraneo a tendenze estremiste come a qualsiasi azione criminosa». Negò di aver mai organizzato squadre antifasciste e, riguardo ai presunti piani insurrezionali, li liquidò come «un bluff, un espediente per…».
Dopo l’apertura spettacolare del dibattimento, il processo contro Tito Zaniboni e i suoi presunti complici si trasformò in una vera e propria rappresentazione politica. Le udienze furono scandite da una lunga sequenza di deposizioni, rapporti di polizia e perizie tecniche, tutte orientate a confermare la tesi accusatoria già consolidata dal regime.
Zaniboni, pur mantenendo un atteggiamento di sfida, cercò di assumersi interamente la responsabilità del gesto, nel tentativo di alleggerire la posizione degli altri imputati. Il generale Luigi Capello, invece, continuò a proclamare la propria innocenza, ribadendo di non aver mai partecipato a piani insurrezionali né a complotti omicidi. Le sue parole, tuttavia, non scalfirono l’impianto accusatorio, costruito più per esigenze politiche che per fondamento probatorio.
Accanto a Tito Zaniboni fu chiamato a rispondere davanti ai giudici anche il generale Luigi Capello, accusato di aver preso parte all’organizzazione del complotto contro Mussolini. La sentenza fu severa: trent’anni di reclusione, dei quali ne scontò effettivamente soltanto nove.
Capello respinse con decisione ogni accusa, arrivando a liquidare Zaniboni come «un energumeno». Rivendicò che l’unico contatto avvenuto tra loro, il 2 novembre 1925, fosse stato motivato esclusivamente dalla concessione di un prestito di 300 lire, destinato – a suo dire – a sostenere una manifestazione di reduci antifascisti.
Nonostante le sue dichiarazioni difensive, il suo coinvolgimento emerse comunque nel corso del procedimento. Zaniboni, pur tentando di scagionarlo, non riuscì a sottrarlo alle responsabilità attribuitegli. Anzi, in un passaggio ambiguo, finì per ammettere indirettamente la sua presenza nella vicenda, affermando: «Avevo notato la sua avversione alla mia azione e la volontà di prendere le distanze da me».
Il Tribunale speciale per la difesa dello Stato, espressione diretta del potere fascista, non lasciò spazio a sorprese. La sentenza, emessa nell’aprile 1927, fu severissima:
Tito Zaniboni venne condannato a trent’anni di reclusione per alto tradimento.
Il generale Capello ricevette la stessa pena, accompagnata dalla degradazione militare, nonostante le prove a suo carico fossero fragili e controverse.
Altri imputati furono assolti o condannati a pene minori, ma dopo lunghi mesi di detenzione preventiva che avevano già segnato irrimediabilmente le loro vite.
La condanna non colpì soltanto gli imputati, ma ebbe ripercussioni profonde anche sul piano familiare e sociale. Zaniboni vide progressivamente sgretolarsi attorno a sé la rete di affetti: la moglie e la figlia si ammalarono, la sorella Tecla lo rinnegò pubblicamente, mentre amici e conoscenti presero le distanze per timore di ritorsioni.
Il processo Zaniboni rappresentò una tappa cruciale nella costruzione della dittatura fascista. Non si trattò soltanto di giudicare un tentativo di attentato, ma di trasformare questo episodio in un caso esemplare, utile a consolidare il mito del Duce invulnerabile e a giustificare la repressione sistematica dell’opposizione. Tuttavia, il fallito attentato di Zaniboni non si rivelò soltanto un episodio sporadico di dissenso politico ma, in realtà, rappresentò il segnale di una frattura profonda tra il regime fascista e le residue voci di opposizione.
La vicenda dimostrò come la giustizia, piegata agli interessi del regime, potesse diventare strumento di propaganda e di intimidazione collettiva. L’eco del processo contribuì a rafforzare l’immagine di Mussolini come leader “protetto dalla Provvidenza” e a legittimare ulteriormente le “leggi fascistissime”, che avevano ormai cancellato ogni residuo di libertà politica.
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